Il segretario della Lega e Ministro del Governo giallo-verde a guida Conte è stato al centro dell’attenzione mediatica in seguito alle vicende che hanno riguardato l’attracco dell’imbarcazione Aquarius con a bordo 629 migranti. La sua comunicazione e le modalità di divulgazione dei suoi messaggi attraverso i vari media richiamano quella di un altro leader, il Presidente degli Stati Uniti

Giacca scura, spilla di Alberto da Giussano, braccia conserte e sguardo deciso su sfondo nero. In basso, all’altezza della vita, una striscia rossa irrompe prepotentemente con lo slogan #chiudiamoiporti. È l’immagine che Matteo Salvini, segretario della Lega e Ministro del Governo giallo-verde a guida Conte, ha dato al mondo a partire dalle vicende legate all’imbarcazione Aquarius con a bordo 629 migranti, scatenando pareri discordanti nell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Da quell’avvenimento, terminato con un “VITTORIA!” digitato rigorosamente in CAPS LOCK in seguito al dirottamento dell’Aquarius in direzione Valencia, il leader della lega ha monopolizzato l’agenda politica anticipando spesso la propria linea sui social, spesso attraverso annunci provocatori seguiti da hashtag. Un “gancio” non solo per il pubblico ma anche per i media, “costretti” a inseguire la notizia restando spesso “vittime” di uno storytelling manicheo che non ammette sfumature: buoni contro cattivi, papà di “buon senso” contro“intellettuali con la scorta”, il genuino “popolo della rete” contro le fake news “confezionate” dai media mainstream.

L’impressione è quella che Matteo Salvini sia rimasto – volutamente, intendiamoci – in uno stato di perenne campagna elettorale. Ed appare ogni giorno più evidente come buona parte della sua comunicazione sia “ispirata” a quella del Presidente americano Donald Trump.

«CHI COPIA, AMMIRA». Lo diceva il giornalista Roberto Gervaso, e per quanto riguardo Matteo Salvini lo si era già intuito nella composizione degli elementi della campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 4 marzo. Quel “Prima gli italiani” – posti in contrapposizione dialettica con “gli immigrati che ci rubano il lavoro” e le ONG “complici” del traffico di esseri umani e del business dell’immigrazione clandestina – ricordava non poco l’“America first” (“Prima l’America”) utilizzato dal tycoon newyorkese nella sua corsa alle presidenziali statunitensi, con tanto di rimando grafico nel rettangolo blu con cornice colorata addobbata da nome e frase d’impatto.

Non solo affinità visive ma anche linguistiche, come dimostrato dalla sentiment analysis ricavata dalla loro comunicazione.
Oggi come ieri, #chiudiamoiporti richiama immediatamente alla memoria quando “The Donald” prometteva di alzare un muro a confine con il Messico: «I will build a great wall – and nobody builds walls better than me, believe me – and I’ll build them very inexpensively. I will build a great, great wall on our southern border, and I will make Mexico pay for that wall. Mark my words».

Una “grammatica” volta all’attacco e all’individuazione del “nemico” tipica delle negative campaigns di stampo tipicamente americano, che ha occupato oltre un terzo della produzione audiovisiva dal 1952 al 1996, crescendo ulteriormente con l’affermazione del web e toccando l’apice – coinvolgendo anche l’Europa – in seguito alla crisi economica del 2008.
Trump si è contraddistinto per un linguaggio certamente poco incline alle tradizionali dispute tra candidati, ma anzi si è fatto portatore di un codice volto allo scontro e allo stravolgimento del politically correct. Nel corso dell’intera campagna presidenziale, il New York Times ha stilato “The 305 People, Places and Things Donald Trump Has Insulted on Twitter”, in cui sono riportati i termini reiterati da Trump per decine di volte come nei più classici messaggi pubblicitari. Quelli più utilizzati per attaccare i suoi avversari sono stati “puppet” (fantoccio), “dummy” (manichino), “phony” (falso), “loser” (perdente), “incompetent”, “sad”, e “crooked” (disonesto) rivolto ripetutamente nei confronti di Hillary Clinton. Analogamente, chi si oppone al Salvini-pensiero è considerato un “buonista”, un “radical-chic” o un “razzista verso gli italiani”.

L’IMPORTANZA DI UTILIZZARE GLI HASHTAG Come già accennato, l’utilizzo dei social media è al centro della comunicazione di entrambi i leader, e l’utilizzo degli hashtag appare di primaria importanza in relazione al loro messaggio. Lontani dai garbugli del “politichese”, Salvini e Trump comunicano attraverso un lessico semplice, un vocabolario comprensibile e asciutto. Nei suoi primi cento giorni, il Presidente americano ha fatto uso delle espressioni #MAGA (“Make America Great Again” – uno dei suoi slogan di punta), #AmericaFirst, #ICYMI (slang tipico del web che sta per “In Case You Missed It”, impiegato per rafforzare i concetti espressi), #USA e #ObamaCare (la riforma dell’ex Presidente Obama, definita “finalmente demolita”). Da neoministro dell’interno, Salvini ha settorializzato i suoi post, contraddistinti dalle frasi #IoStoconChiCiDifende, #PrimagliItaliani, e #StopInvasione, senza dimenticare il celebre #Ruspa.

«Sto lavorando per recuperare anni di ritardi e di buonismo. Chiudiamo i porti!», ha ripetutamente affermato Salvini in questi mesi; «Mexico will pay for the wall!», diceva Trump. «Coincidenze? Io non credo», proferiva solennemente Adam Kadmon.

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