Concetto sfuggente e spesso incosciente, avvicina filosofi e medici. Per il mondo greco entrambi hanno in cura l’uomo nella sua totalità e entrambi si interrogano costantemente per capirlo. Quale chiave di lettura ci offre Gadamer sui dati OsMed?

I Siciliani hanno un concetto tutto loro dell’arte medica. Sanno come sprecare olio da olive di Nocellara Etnea contro il malocchio o sale trapanese per allontanare persone antipatiche che neanche bibbidibobbidibu; persino come ritrovare oggetti perduti con un rituale che se venisse il povero Bruno temerebbe il rogo. Allo stesso modo assumono farmaci come fossero zampe di gallina ma da 2 miliardi e 295 milioni di euro (spesa farmaceutica in Sicilia nel 2017). Peccato che lo stomaco non sia un pentolone nero. Lombardi, campani, laziali, siciliani (i 4 in cima alla classifica italiana OsMed), sembra credano ancora alla magia, a giudicare dall’uso di farmaci. Come gli antenati romani che in salute o in malattia un vaso di terriaca e via. Come polvere magica che più ne metti più in alto voli. Ma nel mondo reale i medici non sono fatine turchine. Che ci stanno a fare allora? I filosofi, se c’è una cosa che sanno fare, è porre domande. Hans-Georg Gadamer se n’è posto alcune interessanti. Era il 1994, pubblicava Dove si nasconde la salute e ancora non poteva sapere degli aspiranti medici che inonderanno domani “Le Ciminiere”, dopo estati passate su quiz di cultura che di generale non hanno nemmeno quello cantato da De Gregori.

Perché un filosofo parla di medicina? Per il mondo greco entrambe hanno in cura l’uomo nella sua totalità (oltre quindi le frammentazioni delle specializzazioni) e entrambe si interrogano costantemente per capirlo. Il τί ἐστι? in fondo è anche un che cos’hai? che tesse un ponte verso l’altro, guarendo in un caso l’anima, nell’altro il corpo. Diversi studi confermano l’importanza della comunicazione medico-paziente; esemplare è il trattamento della sclerodermia. Anna, studentessa di Scienze filosofiche a Catania, medico in pensione, raccontava a lezione che gli attuali dottori non sanno più tastare con mano un disturbo. Una volta un medico disse che se si fosse ammalato in regioni remote, più che affidarsi a colleghi senza macchinari, avrebbe optato per guaritori del luogo. La parola behandlung, in tedesco cura, trattamento, contiene il termine hand cioè mano: «Non solo è necessaria la mano, ma anche l’orecchio sensibile, che sa ascoltare la parola giusta, e l’occhio scrutatore del medico, che cerca di dissimularsi in uno sguardo pieno di tatto». Continua Gadamer (con l’eco di Heidegger): «L’uomo costruisce la sua vita attraverso la sua facoltà di aver cura, ossia preoccupandosi di molte cose, prendendosene continuamente cura e vivendo nella cura, per potersi infine creare una casa nel mondo che si è plasmato». Il primo mondo è il nostro corpo. Il medico è «guaritore ferito», che si sente partecipe del dolore che accomuna gli esseri umani e per questo sa ascoltarlo negli altri e in se stesso; come Chirone, il centauro affetto da ferite incurabili che insegnò ad Asclepio l’arte medica, e Christus patiens, il redentore sofferente. E il paziente deve pensarsi a sua volta medico, capace di ascoltare il proprio corpo e ciò che la malattia vuole comunicare: tutti siamo malati e medici, tutti siamo guaritori feriti (che non significa che per il fonendoscopio basta una buona connessione). Il medico è l’emblema del nostro vivere tra natura e arte ma rispetto al prodotto artificiale delle altre arti, quella medica «consiste nel ripristinare una condizione naturale»: deve condurre l’uomo a ristabilire la sua libertà, la sua normale condizione di vita. Libertà è partecipazione, canta Gaber. E in fondo la prima cosa di cui partecipiamo è la nostra salute, concetto sfuggente e spesso incosciente. «La salute non è precisamente un sentirsi, ma è un esserci, un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita». Senza “Oki” prêt-à-porter ci sentiamo come Goku senza fagioli magici. Ma nel mondo senza Walt Disney e senza Akira Toriyama l’unica bacchetta magica è la responsabilità. Nell’«epoca della responsabilità anonima» in cui «non si è più in grado di indicare un individuo che sia responsabile e a cui si debba rispondere del proprio operato», assumerci la responsabilità della nostra salute (che è anche quella altrui) diventa la kantiana uscita dallo stato di minorità.

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