Lungometraggio scritto e diretto da Stefano Amatucci, con la partecipazione di Luisa Amatucci nel ruolo della protagonista, affronta il problema dell’immigrazione in una chiave distopica da favola nera. Il film offre allo spettatore l’occasione per guardarsi allo specchio e riflettere, perché, come afferma il regista, «in fondo siamo tutti un po’ razzisti, un po’ cattivi, in ognuno di noi c’è questa potenzialità tenuta sotto controllo dalla ragione, dalla cultura, dalla razionalità»

«Avanzava il capodoglio nella notte nera a gran velocità enorme aveva lasciato l’immensità dell’oceano per venire a morire sulla sabbia». Con questi pochi versi, tratti dal Canzoniere della morte di Salvatore Toma, incisi sullo schermo, si apre il lungometraggio Caina. Il film, diretto da Stefano Amatucci che ne ha realizzato soggetto e sceneggiatura con lo scrittore Davide Morganti, è stato proiettato in anteprima nell’ambito della rassegna Garden in Movies nella meravigliosa cornice di Radice Pura, alla presenza del regista e dell’attrice protagonista. Caina è uno dei toponimi dell’inferno dantesco, luogo in cui le anime dei traditori dei parenti sono condannate a rimanere immerse sino al collo nel lago Cocito, col viso rivolto verso il basso. Significativamente Caina anche è il nome della protagonista del film, interpretata da Luisa Amatucci, una donna spietata e razzista, con un passato da serial killer e un presente da trova cadaveri che vende perché siano sciolti nel cemento, liberando così le spiagge dalla loro presenza ingombrante. Una fratricida come il suo corrispettivo maschile, condannata ad un inferno terreno in cui i corpi morti hanno un prezzo mentre la vita non ha più valore.

UN PERSONAGGIO SENZA REDENZIONE. «Caina incarna xenofobia e razzismo – racconta la sua interprete Luisa Amatucci – odia tutto quello che è diverso da sé per religione, colore della pelle o razza, e alla base di tutto questo c’è un’ignoranza nera come il suo animo. È un personaggio fatto di slogan, gli stessi che, ahimè, abbiamo riscontrato numerosi sui social». L’Amatucci è stata definita dalla critica “un’Anna Magnani demoniaca”, eppure interpretare questo personaggio senza redenzione non è stato semplice: «La prima lettura della sceneggiatura ha lasciato in me solo enormi perplessità e ho cominciato a chiedermi se potessero realmente esistere uomini e donne così crudeli. Il mio percorso è iniziato con un totale odio nei confronti di questo personaggio, ma siccome fare l’attrice è la mia professione ho accettato la sfida. Con Stefano abbiamo lavorato a lungo sul profilo psicologico di Caina, lui aveva fatto una scelta precisa, colorandola senza mezze tinte, io ho scavato a fondo per individuarne le fragilità ed iniziare ad amarla, rendendola un po’ più umana». Eppure questa donna ha ben poco di umano, non sa cosa significa essere madre né figlia perché, esclusa dal ciclo della rinascita, appartiene ormai alla morte che indossa nel viso scavato, negli occhi spenti, negli abiti a lutto.

L’ESIGENZA DI RACCONTARE. «Il soggetto di Caina è nato in Sicilia – ha raccontato Stefano Amatucci- Ero qui per girare una fiction e passai un weekend a Lampedusa dove incontrai alcuni immigrati che mi raccontarono la sconvolgente realtà dei centri d’accoglienza; di lì a poco i tg avrebbero trasmesso le scene da lager dei migranti lavati con le pompe. Nasce così l’esigenza di raccontare il problema immigrazione e la povertà, non solo economica ma anche e soprattutto culturale, esigenza di cui ho discusso con lo scrittore Davide Morganti a cui proposi di scrivere uno spin off del suo omonimo romanzo». Ma mentre nel romanzo Caina è una serial killer che lavora per la camorra, nel film la sua occupazione è legale e ben più tetra. «Il personaggio di Caina ha subito una profonda metamorfosi: cambia la sua storia, la sua psicologia, solo la sua cultura rimane uguale. Nel film la donna è calata in una realtà allucinata, distopica e irreale, viene meno proprio quel realismo che caratterizza il romanzo».

UNA FAVOLA NERA CHE FA RIFLETTERE. La scelta del regista, nell’epoca di Fuocoammare, è poco convenzionale, ma frutto di un’attenta riflessione. «La chiave distopica è nata per un gusto personale e per la volontà di raccontare una storia che, pur ambientata nel Mediterraneo, potrebbe essere avvenuta in qualsiasi luogo. Il distopico poi è molto vicino al favolistico, ed io credo molto nelle favole e nella loro forza di trasmissione. Infine bisogna considerare che avventurarsi in un mondo non reale consente una maggiore libertà: purtroppo la realtà spesso supera la fantasia». Caina è un film che obbliga la società a mettersi allo specchio e riflettere su sé stessa. «In un Paese in cui si era fintamente felici si voleva evadere, in un paese in cui si è realmente infelici si percepisce il bisogno di riflettere. Questo film – conclude il regista – ti lascia spiazzato, ti pone di fronte ad una situazione che spesso si fa finta di non vedere. In fondo siamo tutti un po’ razzisti, un po’ cattivi, in ognuno di noi c’è questa potenzialità tenuta sotto controllo dalla ragione, dalla cultura, dalla razionalità. I bambini devono imparare da piccoli che l’accoglienza è un dono, la contaminazione è un privilegio».

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