L’orchestra catanese diretta dal tedesco Eckehard Stier si è cimentata in un vero e proprio tributo al tormentato universo creativo di un “paese affascinante e contraddittorio”. Lunghi applausi per il primo violoncello Vadim Pavlov che, dopo la sua esibizione da solista nelle Variazioni su un tema rococò, ha regalato al pubblico un doppio bis

Lo struggimento di due secoli, un estro geniale acclamato a livello internazionale, il perenne dissidio fra tradizione e rottura: è questo il ritratto della Grande Madre Russia emerso dall’appuntamento della stagione sinfonica del Teatro Massimo Bellini di giorno 9 febbraio. Un accostamento fra due giganti del panorama musicale lontani non solo per epoca, ma anche per echi e significati, e tuttavia capaci di restituire in due ore di concerto l’atmosfera evocativa e convincente di una Russia che in cento anni di Storia – e storia musicale – è sempre rimasta fedele a sé stessa: maestosa e lirica, ma al tempo stesso dilaniata dall’interno e conturbante nelle sue manifestazioni culturali.

La prima parte del concerto ha restituito l’immagine di un compositore di eccezionale talento e al tempo stesso debitore dei canoni settecenteschi, che alla ripresa di alcuni motivi mozartiani nelle Variazioni alterna un gusto spiccatamente ottocentesco

L’orchestra del Teatro Massimo Bellini, diretta dal tedesco Eckehard Stier, si è esibita innanzitutto nel noto valzer che apre il secondo atto dell’Evgenij Onegin di Čajkovskij (1879): sei minuti di viva festa che, tanto nell’opera lirica quanto nella serata catanese, sono stati il perfetto preludio a una drammaticità crescente. Subito dopo il pubblico – eterogeneo e composto anche da giovani – ha apprezzato in particolare il brillante violoncellista pietroburghese Vadim Pavlov, solista delle Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra (op. 33, 1878) di Čajkovskij. Non a caso, dopo un lungo applauso l’artista (primo violoncello dell’orchestra del Bellini) ha concesso ben due bis: il Quarto studio da concerto per violoncello solista di Michail Bukinik, anche lui russo, che ha impreziosito la serata con un tassello poco noto riguardante il panorama della fine dell’Ottocento, e la celebre Gavotta di Bach.

Il violoncellista Vadim Pavlov

La prima parte del concerto ha dunque restituito l’immagine di un compositore di eccezionale talento e al tempo stesso debitore dei canoni settecenteschi, che alla ripresa di alcuni motivi mozartiani nelle Variazioni alterna un gusto spiccatamente ottocentesco, tanto in alcuni fraseggi più delicati dell’op. 33 quanto nelle raffinate linee melodiche dell’Onegin.

A un clima ora gioioso e ora elegiaco, ma dalle sonorità pur sempre morbide, è seguita poi la solenne Sinfonia n. 10 in mi minore di Šostakovič (op. 93, 1953), con i cui richiami a Mahler e Debussy si è chiuso un cerchio esecutivo di elevato spessore. Notevole nello specifico l’equilibrio del Maestro Stier che, vivace durante tutti e quattro i movimenti, ha saputo valorizzare un’orchestra trascinante senza sovrastarla con una conduzione egemonica.

La scelta del repertorio esalta l’eroismo dei due compositori,da un lato con la volontà di Čajkovskij di confrontarsi col poema di Puškin e dall’altro con la netta distanza di Šostakovič nei confronti dell’ottimismo culturale imposto dal regime staliniano

In tal senso, vero è che l’innegabile intimismo comune ai due compositori si declina in elementi cromatici ben diversi – un allegro vivo di Čajkovskij nella IV variazione non condivide la violenza espressiva dell’allegro del secondo movimento firmato Šostakovič –, ma altrettanto vero è che il “salto” dal canto del cigno dell’epoca zarista all’ansioso risveglio culturale del 1953 non risulta poi granché azzardato. In primo piano, infatti, si staglia l’eroismo dei due connazionali, rappresentato nel primo caso dalla volontà di Čajkovskij di confrontarsi nonostante lo scetticismo dei contemporanei con il poema più acclamato di Puškin, fondatore dell’attuale lingua letteraria russa, e nel secondo caso dalla netta distanza di Šostakovič dall’ottimismo culturale imposto dal regime staliniano (non a caso la Sinfonia n. 10 fu composta in occasione della morte del dittatore).

Quello proposto al secondo appuntamento belliniano con la stagione concertistica del 2019 si può configurare, quindi, come un vero e proprio tributo al tormentato universo creativo di un Paese intero, affascinante e contraddittorio insieme, tanto nella sua migliore tradizione sinfonica quanto nei duttili e numerosi spunti di riflessione a cui quest’ultima continua instancabilmente a prestarsi.

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