Sembrava non dovesse giungere più e invece dopo 9 anni ecco la lieta notizia: a breve arriveranno i fondi che riconsegneranno a un quartiere della città delle cento campane il suo luogo di culto. Storia da “paesani”?  Non proprio, in ballo c’è l’identità stessa di una comunità

Anni fa, passeggiando per Taormina, un po’ lontano dalla via principale, sorpresi in una piazzetta dei bambini giocare a pallone; non instagrammabili, ma sudati e sporchi. Non ne vedevo da tempo. Dove stanno i nostri bambini? La questione non è solo se i giovani scendono in piazza per protestare, ma se lo fanno i bambini per giocare. E se lo fanno gli adulti quando viaggiano. C’è un consiglio infatti che, per prudenza, non diamo ai viaggiatori: entrare nei quartieri delle città. Non fermatevi al Corso della capitale in cui le navi da crociera vi accompagnano. Esplorate, sognate, scoprite, perdetevi tra la gente del luogo, quella che non va in giro con abiti tradizionali. I quartieri sono gli angoli del mondo in cui si accumula, come il ragù nella teglia di lasagne, la vita di una città. Ad Acireale, a meno di 10 minuti a piedi dal centro, c’è un quartiere che da qualche giorno è tornato a vivere con entusiasmo la sua piazza: è quello di San Michele. Perché?

IN-AGIBILITÀ. Era marzo 2010 quando venne annunciata l’inagibilità e la relativa chiusura della Chiesa di San Michele Arcangelo che dà il nome al sobborgo. Da quel momento il salone parrocchiale, che per tante generazioni aveva accolto feste e spettacoli, fu adibito al culto. Un luogo, dignitoso peraltro, la comunità lo avrebbe avuto ugualmente. Ma non era la stessa cosa. Fu un colpo duro per tutti, ma soprattutto per il gruppo giovani del tempo che di quei luoghi sacri aveva fatto una seconda casa e che, come tutti i ragazzi, mal vive gli addii, non sapendo che spesso sono solo degli arrivederci. Adesso giunge la notizia tanto attesa: finalmente è stato firmato il decreto per la ristrutturazione della chiesa, una delle più antiche della città delle cento campane: dopo agosto, pare, arriveranno i fondi e quindi inizieranno i lavori. Certo, ci vorrà ancora del tempo per rimettere i cuori in quella navata che abbraccia più di quattrocento anni di storia, ma la pazienza non ci manca, e non manca neanche ai più veterani, come la 92enne nonna Francesca che non sperava più in questa notizia. Cosa significhi esattamente per una comunità il pensiero di poter rivivere il suo tempio ce lo spiega il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, uno di quei pensatori che ti entra nel profondo e che ritrovi in scene di vita quotidiana.

ABITATORI DI QUARTIERE. La vita umana è fatta di due fattori inseparabili: «L’uomo che vive e la circostanza o mondo in cui egli vive», scrive Ortega y Gasset in L’uomo e la gente. Un’intuizione geniale quanto ovvia: il corpo, il luogo, la circostanza in cui mi trovo decidono del mio destino. Chi sono io se non una siciliana acese cresciuta nel quartiere di San Michele? Sarei la stessa persona se vivessi in Corso Italia, o in un’altra città? Se anziché vedere mare, vulcano Etna, Madonnina e palazzi vedessi dalla mia finestra la Foresta Nera? Se anziché l’italiano parlassi il lettone? È questo che intende il filosofo quando scrive che siamo personaggi spaziali. Il mio corpo «mi fissa come un chiodo in un certo posto» che in spagnolo si dice aquí. «Dove mi trovo lo chiamo aquí. Aquí – il fonema castigliano – è caratterizzato dall’accento acuto verticale, dal suo cadere improvviso in solo due sillabe: dall’a tanto aperta sull’i così tronca. Esso esprime meravigliosamente questa mazzata del destino che mi fissa come un chiodo…qui». Il destino mi ha fissato aquì, a San Michele: «Qui ed io, io e qui siamo inseparabili per tutta la vita. Il mondo, con tutte le cose che contiene, deve essermi da qui». La mia vita fuori, nel mondo, mi appare attraverso la vita del quartiere di San Michele: l’erborista che ti offre una sedia, un sorriso e tanti campioncini; il meccanico che invita chi ha appena urtato la tua macchina a citofonarti a casa; il proprietario della bottega che ti recita una poesia per ogni occasione; le panchine sotto casa e gli scalini della Chiesa che neanche il divano è così comodo; il negoziante che conserva lastre di cartone per il senzatetto che per mesi alle 20 si fermava a dormire lì davanti; i suoi residenti, molti dei quali “personaggi”, a volte invadenti, un po’ scomodi, ma che riescono sempre a strapparti un sorriso e un’occasione per riflettere. La chiesa, fisica oltre che spirituale, è il simbolo di tutto questo. In Sicilia soprattutto, sono molti i quartieri che devono il loro nome al luogo sacro che vi sorge: è un legame viscerale che va oltre i modi bigotti di vivere la religione. Alla comunità non verrà riconsegnata solo la sua chiesa con il suo valore artistico: ma il suo aquì. Il quartiere possiede la sua congrua parte di realtà: prenderne contezza significa agire localmente ma pensare globalmente.

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