«Non posso fare a meno di notare che la cucina è in continua evoluzione. Sono favorevole all’innovazione, ma bisogna sempre rivolgere uno sguardo alle radici. Ciascuno di noi ha una tradizione da custodire, ma anche da esaltare. Non è un caso se tutto il mondo invidia la nostra cultura culinaria. Un messaggio alle nuove generazioni? Abbandoniamo la cucina molecolare per portare al palato delle persone il sapore genuino e puro delle materie prime». A parlare è Roberto Toro, executive chef del Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina, che dopo il successo ottenuto al summit del G7 a Taormina, è stato invitato a Washington per la seconda edizione della Settimana della cucina italiana nel mondo e, questa estate, è stato protagonista tra i protagonisti durante le cene realizzate a quattro mani con gli stellati. Adesso per lui è tempo di levare il grembiule e indossare i panni da scrittore: mercoledì a Catania, Toro presenterà la pubblicazione “Piacìri” della collana “In viaggio con Bianca” con cui lo chef invita a un viaggio tra i sapori della Sicilia, alla scoperta di ricette, ingredienti e atmosfere uniche al mondo. D’altronde il titolo rimanda al termine “piacere”, perché «così deve essere intesa la convivialità: una continua scoperta di luoghi, sapori, odori e arti», come spiega Toro.

Ma quanto hanno inciso nella sua carriera le esperienze che, finora, ha vissuto?
«Ciascuna mi ha onorato. C’è stato, comunque, un carico di responsabilità non indifferente: ho rappresentato l’Italia, soprattutto la Sicilia, in diverse occasioni. È stato faticoso cercare di non deludere le aspettative, rendendo onore alle origini».

Quando nasce la sua vocazione per la cucina?
«Sin dall’infanzia. Mamma e nonna erano solite preparare i cibi in casa, dalla passata di pomodoro al pane. Il susseguirsi delle stagioni era legato all’alternarsi di profumi e odori. Dopo gli studi, invece, ho girato il mondo per acquisire esperienze dalla Danimarca alla Francia alla Germania. Poi, dopo tanto girovagare, ho sentito la necessità di tornare nella mia terra, la Sicilia. Qui credo di aver creato qualcosa di buono».

Cos’ha importato dal mondo?
«Ho assorbito ciò che ho imparato negli anni, personalizzando alcuni piatti e creando una mia identità. È difficile trovare al di fuori della Sicilia prodotti altrettanto genuini e questo è il nostro valore aggiunto».

C’è un “sapore” che la identifica?
«Quello del pane: me lo porto dietro da quando ero un bambino. Lo sentivo a diversi metri da casa, quando facevo ritorno da scuola. Con il tempo si stanno perdendo le tradizioni, ed è come se la società ci stesse “inghiottendo”».

Dalla cucina di Palagonia a quella delle grandi “case”: si è mai montato la testa?
«Non credo proprio. Ringrazio i miei genitori che mi hanno trasmesso tanta umiltà. Questa mi aiuta a crescere, restando con i piedi a terra: sarò sempre un piccolo cuoco diventato chef. È con questo spirito che cerco di cucinare sempre nel miglior modo possibile».

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