Per i ventenni di cinquant’anni fa, canzoni come “Revolution” dei Beatles non erano solamente la colonna sonora di un’epoca, ma l’espressione di un desiderio di cambiamento. Qual è, mezzo secolo dopo, il ruolo della musica nella vita dei giovani?

Partiamo dal 1968. Ovvero dal momento esatto in cui divenne chiaro che la musica dei giovani era l’espressione artistica del desiderio di una rivoluzione culturale basata non solo su un’idea sovversiva, bensì su una proposta concreta per una società diversa. Fu allora che i Beatles pubblicarono “Revolution”. «Dici che vuoi una rivoluzione – cantava John Lennon – beh, sai tutti vogliamo cambiare il mondo […] ma quando parli di distruzione, non sai che puoi considerarmi fuori?». Insomma, la generazione che in Europa nell’immediato dopoguerra aveva rivendicato una voce propria – prendendo a modello Elvis e contrapponendosi alla severità di un jazz inevitabilmente ricollocato da musica popolare a musica d’arte – era cresciuta. E con essa era cresciuta anche la consapevolezza di voler prendere parte attiva al cambiamento. In Italia nel 1967 accadde qualcosa di analogo: Gianni Morandi, fino ad allora celebre per le sue canzoni d’amore, divenne primo in classifica con “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” e un giovane Francesco Guccini scrisse “Dio è morto”, un pezzo che si apre con una citazione nichilista e si chiude con un pensiero di speranza: «Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge». Insomma, se nella generazione sessantottina c’era un vero desiderio di mutamento, le canzoni dell’epoca ne furono non la colonna sonora, bensì la bandiera. Nacque la canzone sociale. Ma cosa ne è rimasto oggi?

Il testo di "Revolution" scritto da John Lennon
Il testo di “Revolution” scritto da John Lennon

I ventenni del 2018 vivono una realtà molto diversa rispetto a quella dei loro coetanei di cinquant’anni fa. E la musica, nel frattempo, ha perso il ruolo centrale nelle loro giornate. La generazione di Spotify non sogna il Rock & Roll, non compra più le chitarre (la Gibson ha recentemente dichiarato fallimento), né tantomeno i dischi. Frequenta i concerti, ma spesso è attratta più dall’idea d’incontrare l’idolo del momento che non dal messaggio che la sua musica potrebbe trasmettere. Quella che viviamo oggi è la società dell’omologazione, in cui alla fine pure la musica “indie” – che vorrebbe dare sfogo al disperato bisogno d’identità “alternativa” dei giovani d’oggi – converge in maniera quasi gattopardiana con la multinazionale del pop. L’esempio più lampante? “Lo Stato Sociale”, band protagonista quest’anno al festival di Sanremo con “Un’estate in vacanza”, una canzonetta intrisa di retorica qualunquista per la quale in una lunga elencazione si accosta il poliziotto al laureato, il cuoco stellato all’influencer, il cameriere al rottamatore. Insomma un appiattimento che rende tutte le storie – e tutte le persone – uguali: tutti sono vittime e carnefici allo stesso tempo. E mentre il settantaquattrenne Roger Waters s’interroga nel suo ultimo album sulle scelte della società occidentale nel dopoguerra (ponendo di fatto una questione sugli esiti della rivoluzione sessantottina) “Lo Stato Sociale” – che pure ha proposto una cover di Guccini al concertone del primo maggio – nel suo pop dal sound glitterato post anni ’90, si limita a fare una fotografia di una società specchio della politica odierna: i rivoluzionari di oggi si propongono di cacciare il vecchio («Perché non te ne vai?»), ma senza un’idea concreta per ripensare la società.

Ma torniamo al ruolo della musica nelle giornate dei giovani: qualcuno potrebbe dire che è il contesto a essere cambiato. Se negli anni ’70 il supporto principe per ascoltare le canzoni era il vinile (che presuppone un alto grado di attenzione perfino nell’avviare la riproduzione) oggi la musica liquida ci riporta a un’idea di sottofondo (qualcuno potrebbe definire le canzoni di oggi muzak, musica da ascensore), magari da ascoltare dall’altoparlantino dello smartphone, con buona pace di decenni di studi sull’alta fedeltà del suono. Una non-musica per una generazione di non-ascoltatori quindi? Forse, intanto però a ben vedere le vendite dei vinili sono in ascesa (anche tra i giovani) e al concerto milanese del “genio creativo dei Pink Floyd” hanno preso parte quattro generazioni sollecitate dalla domanda «Is this the life we really want?». Vogliamo credere davvero che non ci siano tra loro dei ventenni in grado di interpretare il bisogno di questo tempo e di dare un contributo concreto per cambiare davvero le cose? Le considerazioni sulle epoche si possono fare solo a posteriori, ma se è vero che la storia è ciclica arriva sempre un momento in cui in seguito a una crisi si assiste alla nascita di una nuova era. E ogni volta l’arte non può che esserne il principale veicolo.

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