Cuoco da 37 anni, di origini palermitane, appartiene alla vecchia generazione di chi ha fatto gavetta in vari locali prima di mettersi in proprio e di trasferirsi all’estero, in Russia. «Oggi, dopo anni di esperienza, sono diventato chef executive di Eataly a Mosca»

«Nel momento in cui un cuoco si trasferisce all’estero non è facile per lui adattarsi ai prodotti che si trovano in loco per preparare le proprie ricette tradizionali: i limoni hanno un’acidità diversa rispetto ai nostri siciliani, il contenuto di iodio nel sale è differente». Queste sono solo alcune delle difficoltà che un cuoco siciliano si trova a dover affrontare nel momento in cui decide di esportare nel mondo la propria cucina, ma Giuseppe Priolo le ha superate.

CHEF PRIOLO. Cuoco da 37 anni, Giuseppe Priolo, di Palermo, appartiene alla vecchia generazione di chi ha fatto gavetta in vari locali prima di mettersi in proprio e di trasferirsi all’estero. «Nella Palermo della mia gioventù c’erano meno ristoranti rispetto a oggi e certamente meno affollati, ma la qualità era ottima e lavorarvi mi ha permesso di avere una buona formazione». Dopo aver aperto un locale di famiglia in stile American bar, motivi personali hanno portato il cuoco a fare una scommessa con se stesso e a esportare la nostra cucina mediterranea in Russia. «Anni fa – racconta Priolo – era più facile inserirsi in questo paese ancora “vergine” di ristorazione, mentre oggi anche i cuochi russi sono notevolmente migliorati e quindi c’è meno richiesta di esperti italiani. A rendere la situazione più complessa hanno contribuito anche sanzioni e leggi sull’embargo, che hanno aumentato il senso di patriottismo e di conseguenza anche la produzione autoctona».

UNA DEGUSTAZIONE NON APPREZZATA. «Quando sono arrivato in Russia, 11 anni fa, ho deciso di mettermi in gioco a San Pietroburgo, splendida città ma non dal punto di vista culinario. Inizialmente infatti non hanno saputo apprezzare i nostri piatti tipici, che io avevo proposto in chiave più moderna, delicata e mediterranea in una degustazione che si è rivelata un disastro. Poi è arrivata la possibilità di collaborare con la compagnia di ristorazione Ginza Project e da lì non mi sono più fermato».

UNA CUCINA DA “SCARPETTA”. Il trasferimento da San Pietroburgo a Mosca, dove un amico lo aveva invitato, è stato un successo per Priolo: «A Mosca ho optato direttamente per una cucina italiana più tradizionale, “da scarpetta”. Inizialmente ho notato che i Russi non amano il sale, ciò che per noi è gustoso per loro è salato, ma sono stati capaci di adattarsi e conoscere meglio la nostra cucina, anche grazie ai viaggi in Italia. Oggi, dopo anni di esperienza, sono diventato chef executive di Eataly a Mosca».

CONVIVIALITA’ A TAVOLA. La cucina italiana non coincide solo con prodotti di qualità, ma con una vera e propria cultura legata allo stare a tavola tutti insieme, prendersi i propri tempi per pranzo e cena: da questo punto di vista c’è una certa somiglianza tra Italia e Russia. «In Russia – racconta lo chef Priolo – c’è un sistema di lavoro in cui a due giorni lavorativi di 12 ore si alternano due giorni di riposo. Nelle giornate feriali è raro che ci sia tempo per riunirsi in famiglia e condividere i pasti, spesso si prepara qualcosa di abbondante nel week-end e lo si conserva per la settimana. Nei giorni festivi, che qui sono molto numerosi, c’è però l’usanza di riunirsi in grandi tavolate per festeggiare insieme le ricorrenze e trascorrere momenti di convivialità nei ristoranti».

COTTO E SERVITO. I Russi hanno imparato quindi ad apprezzare la cucina italiana, ma preferiscono gustarla già pronta e servita più che cimentarsi a riprodurla: «Eataly non è solo una catena di ristoranti, ma offre anche prodotti made in Italy da acquistare. In Italia però sembra che l’usanza di recarsi al mercato e fare la spesa sia più diffusa, anche se alcuni prodotti come la pasta fresca sono molto venduti anche qui a Mosca. Per il resto bisogna considerare invece che altri prodotti non sono accessibili a tutti a causa dei costi alti dovuti soprattutto all’embargo, che non ci consente per esempio di importare salumi e ci obbliga a produrli con gli allevamenti in loco».

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