«Nel volume “A Mani Nude” – spiega l’autrice – ho raccontato la sua vicenda, quella che ha preceduto  il successo di oggi che vede le sue teste premiate da Sgarbi alla mostra di Verona, sul set di Carlo Verdone, negli showroom di Dolce & Gabbana»

«Questo libro è nato per caso, come avvengono sempre le cose migliori». Quando Lucia Andreano parla di A Mani Nude. La memoria della terra nel cammino di Besnik Harizaj (Duetredue Edizioni) le si accende una luce negli occhi. Perché la sua amicizia con l’artista albanese, nata quattro anni fa nella bottega di Caltagirone, è sfociata nella biografia dedicata a questo affascinante personaggio, presentata in anteprima al Consolato di New York e ufficialmente lo scorso 27 maggio al rettorato di Catania, nell’ambito della manifestazione Mare Liberum organizzata dalla rivista Eastwest e dall’associazione I Diplomatici.

«Per caso – racconta l’autrice siciliana – in un pomeriggio piovoso di dicembre passeggiavo per le vie di Caltagirone e ho trovato riparo davanti una vetrina dove erano esposte delle bellissime ceramiche». Prima delle teste nere e più grandi di quelle tradizionali, però, la docente di Lettere con la passione per la ceramica e l’argilla è rimasta colpita da una locandina in albanese.

«Mi sono chiesta cosa ci facesse una locandina in albanese sulla vetrina di un ceramista di Caltagirone». E proprio la sua curiosità l’ha spinta a entrare nel negozio, dove la professoressa è stata accolta da Besnik Harizaj, 48 anni, che risaliva dal laboratorio con in testa l’inseparabile cappello di lana. «Si è pulito le mani sul grembiule e mi ha detto “Sono Besnik”. Da lì è iniziata la nostra amicizia».

«Mentre durante vari incontri mi raccontava la sua storia – quella che ha preceduto il successo di oggi che vede le sue teste premiate da Sgarbi alla mostra di Verona, sul set di Carlo Verdone, negli showroom di Dolce & Gabbana e al consolato italiano a New York – ho lanciato l’idea di scrivere un libro».

Besnik Harizaj e Lucia Andreano

Patrocinato da Amnesty International – gruppo 72 di Catania – per la capacità «di toccare diversi temi legati ai diritti umani attraverso la storia, vera, di un artista […] riuscito a lasciarsi alle spalle un passato di dolore e povertà, privo di libertà e senza possibilità di sviluppo personale».

«Ho cominciato a registrare le nostre conversazioni e tra risate, pianti e clienti che entravano per scambiare quattro chiacchiere con lui ho ricavato il primo capitolo. Quando gliel’ho fatto leggere mi ha risposto solo “Ho pianto” e da lì ho avuto la certezza che la storia c’era».

Una storia che finisce bene – oggi l’artista è sposato e ha tre figlie – ma che vede Besnik affrontare tante difficoltà. A cominciare dalla severità del padre contadino che lo vedeva destinato ai campi alla caduta della dittatura in Albania e al passaggio a una forma democratica che ancora non era considerabile tale. Fino ad arrivare alle guerre iugoslave, che lo vedono impegnato sulle Alpi albanesi per difendere i confini.

Besnik Harizaj e Vittorio Sgarbi

Besnik aveva deciso di diventare un’artista. A 19 anni entra nella sezione scultore e artisti per dittatori di Tirana, ma l’intervento sul fronte infrange il suo sogno, che lascia impresso nel muro di tufo «delle meraviglie» in cui da piccolo incideva cavalli, teste e fantasie usando solo un cucchiaio rotto e un chiodo.

«In Albania facevo l’insegnante e guadagnavo cinquemila lire al mese, racconta il ceramista. Ma ho capito che non era la mia strada, non volevo fare la fine del mio preside, che dopo scuola arrotondava lo stipendio vendendo sigarette in mezzo alla strada». Ecco perché intraprende un cammino lungo sette giorni tra le montagne per arrivare in Grecia, a Creta, dove lavora per mettere da parte i soldi necessari per spostarsi in quella che sarebbe diventata la sua seconda patria, la Sicilia.

«Dove è arrivato, da clandestino, nell’ottobre del ’93, racconta Lucia Andreano, portando con sé la fatica, la sofferenza, la solitudine e il ricordo degli affetti lasciati a casa. Ambientarsi in quella che viene considerata la patria della ceramica per eccellenza non è stato facile», aggiunge Harizaj, che racconta anche l’episodio di una vetrina infranta per sfregio da qualcuno. «Il mio intento era solo quello di lavorare, ho visto che le mie ceramiche piacevano e nel 2000 ho deciso di investire su questa attività. Ho detto “O la va o la spacca”. Ed è andata bene». Anche se, in fondo, resta l’amarezza di ciò che è stato lasciato nella propria terra e la curiosità di sapere come sarebbe potuto essere non andare via. «Rifarei tutto da capo, afferma Besnik, ma la mia storia sarebbe davvero a lieto fine se il nostro sistema fosse stato quello giusto e avessi avuto la possibilità di realizzarmi nel mio Paese».

 

 

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