La storia del catanese Carmelo Ardizzone, alpino che combatté durante la guerra dei Balcani a Pyrgos, e della moglie Sofia Daì, coniusciuta in Grecia. Dopo la guerra, i coniugi partirono per la Sicilia, dove Carmelo riprese l’attività di pescatore e Sofia imparò ad integrarsi in una terra straniera

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]D[/dropcap][dropcap]opo una notte in mare non resta che sale, sudore e tanta voglia di vivere». Sembra la dichiarazione di un immigrato appena giunto sulle nostre coste. Da anni, ormai, frasi come questa affollano i notiziari. Invece questo è l’incipit di una storia che ha sì a che fare con l’immigrazione nel nostro Paese, ma le lancette dell’orologio vanno spostate di ben 76 anni indietro. Tutto inizia in Grecia, a Pyrgos, dove nel 1941 giunge Carmelo Ardizzone, un giovane alpino catanese che presta servizio nel contesto della Campagna dei Balcani. La Storia ci ha dimostrato che questa iniziativa bellica non fu proprio un successo: la Germania prende il controllo della situazione in poco tempo e anche per il giovane Ardizzone le cose si mettono male. La sorte, tuttavia, gli riserva un dono inaspettato. A prendersi cura di questo soldato e proteggerlo dai rastrellamenti nazisti è Sofia Daì, figlia di un imprenditore agricolo della zona. Tra i due nasce qualcosa di speciale, ed in poco tempo convolano a nozze proprio in territorio greco.

IL VIAGGIONel 1945 la guerra volge ormai al termine e per la famiglia Ardizzone, che nel frattempo è stata arricchita dalla nascita della primogenita Filia, è tempo di riprendere in mano la vita. In Grecia restano solo cumuli di macerie e le proprietà agricole che erano lo splendore del Paese si sono tramutate in campi di battaglia. Carmelo decide di ritornare in Patria e di riprendere il mestiere di pescatore che in precedenza aveva dovuto abbandonare. Per Sofia inizia un viaggio che muterà per sempre il suo destino. Lei è e resta una donna greca, fiera delle sue origini e delle tradizioni della sua terra. Dopo giorni di navigazione madre e figlia raggiungono le coste catanesi scortate da alcuni amici. Carmelo, invece, è rimasto a Taranto poiché, nel frattempo, ha contratto la malaria e le raggiungerà in poco tempo.

Carmelo Ardizzone e Sofia Daì

LA BORGATA E IL PORTICCIOLO. San Giovanni li Cuti era in quegli anni un piccolo villaggio di pescatori e non aveva ancora assunto le caratteristiche di borgata a vocazione turistica che conosciamo oggi. Sofia e Filia sbarcano nel piccolo porticciolo che dal Santo prende il nome: nessuno tra gli abitanti del villaggio era preparato al loro arrivo. Il padre di Carmelo, Francesco Ardizzone, intento a risistemare quanto aveva pescato, viene destato dalle urla degli altri pescatori: «A greca, A greca!! Arrivau a greca!». Lui sa che il proprio figlio si era sposato e aveva avuto una figlia, ma non poteva immaginare che in poco tempo li avrebbe visti. Accorrono tutti ad assistere a tale evento: la spiaggetta attigua al porticciolo si riempie di curiosi. «Chissà che faccia hanno questi greci, e come parlano» avranno certamente pensato gli astanti. L’accoglienza è comunque delle più calorose: se non altro, a commuovere i cuori dei pescatori e dei loro familiari, è l’innocente gesto della piccola Filia che si lancia tra le braccia del nonno pur non avendolo mai visto. «Il richiamo del sangue» urlano gli abitanti del luogo. Per Filia sarà stato sicuramente questo, ma Sofia sa che non avendo alcun legame con questo nuovo mondo, per lei la vita non sarà facile. Inizia a quel punto una vera e propria “processione” che solennemente accompagna le nuove arrivate presso la casa del patriarca.

TRADIZIONE E INTEGRAZIONE . La giovane signora Ardizzone, che per quanto ben accolta pur nella diffidenza iniziale dei pescatori resta un’immigrata, si rende conto ben presto della presenza di abitudini e tradizioni alle quali doversi adattare per non soccombere. Un grande ostacolo è la lingua. Sofia, munita di un libro di grammatica inizia a cimentarsi nell’apprendimento dell’italiano. Ma gli sforzi giovano a poco perché è il siciliano a fare da padrone. Per di più,  vittima della “liscia” catanese, è spesso soggetta allo scherno dei familiari e degli altri abitanti del villaggio per un utilizzo indotto di parole poco eleganti. A condire queste simpatiche scenette vi è poi l’abitudine di attribuire ad ogni conterraneo un epiteto identificativo della propria condizione, “u peccuru”, come si suol dire in termini popolari. “A greca”, questo il suo nuovo appellativo, ignara di questa usanza si scontra con nomignoli come “a lavannara”, “a sciancata” che scambia per dei veri e propri cognomi scatenando l’ilarità e forse anche l’ira degli astanti. Tutti, però, iniziano a volerle bene. Iniziano ad apprezzare la sua cucina, le sue “ricette orientali”. Perché si sa, un catanese a tavola dimentica anche i più atroci torti ricevuti. Da “apprendista”, Sofia diventa maestra di una nuova tradizione.

LO STRANIERO. La storia di questa donna greca ci deve far riflettere: è possibile, ancora oggi, imparare qualcosa dallo “straniero” venuto da lontano, o le migliaia di persone che giungono sulle nostre coste sono da tenere alla larga? Certamente Sofia, recentemente scomparsa all’età di 93 anni, ha cambiato profondamente, pur nel suo piccolo, San Giovanni li Cuti. Moglie e  madre esemplare, amica di tutti, sempre viva nel ricordo di chi l’ha conosciuta, è riuscita a dimostrare che le differenze, a volte, sono solo mentali.

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