Ogni giorno un ragazzo siciliano sceglie se restare o partire, prendendo una decisione che incide profondamente sul suo destino e su quello della sua terra. Per questo motivo gli studenti che hanno visitato la mostra “L’isola che non s’arrende (1968-1969)” non sono rimasti insensibili alla provocazione di quel titolo, né alle storie narrate. Si è così riacceso in loro il dibattito su cosa significa rimanere o gettare la spugna in una terra difficile

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]E[/dropcap]ssere o non essere, questo è il dilemma», scriveva Shakespeare nel suo celeberrimo Amleto. “Resistere o arrendersi, questo è il problema” direbbero i giovani siciliani oggi. E mentre la Sicilia arranca, procede a tentoni, ma troppo a rilento per poter raggiungere questi giovani in fuga, viene organizzata una mostra dal titolo emblematico e non poco problematico: “L’isola che non s’arrende”. Emblematico perché racconta di una Sicilia, quella del biennio ‘68-‘69, che si piega alla forza della natura, che viene sfruttata, offesa e abbandonata, ma che torna, nonostante tutto, a vivere, combattere e sognare per un futuro migliore. Lo stesso per cui hanno combattuto i movimenti studenteschi e quelli contadini, quell’impossibile realtà per cui qualcuno ha sacrificato i propri progetti, qualcun altro la propria vita. La mostra, ospitata dalla Galleria Credito Siciliano di Acireale e organizzata dalla Fondazione Domenico Sanfiippo editore, con l’art consulting della Fondazione Creval e in collaborazione con la Fondazione Oelle e l’Accademia di Belle Arti di Catania, è stata apprezzata da un pubblico molto eterogeneo per età e per esperienze. Se le emozioni dei visitatori più adulti sono state per lo più suggerite dal ricordo che riaffiora nostalgico e che svanisce malinconico nel confronto col presente, i più giovani hanno deciso di interrogarsi sulle loro generazioni e sulle scelte che prima o tardi saranno chiamati a compiere. Partire o restare? Arrendersi o combattere? E che significa combattere? Tra i giovani visitatori, qualcuno ha messo nero su bianco le proprie riflessioni che suonano oggi come un monito rivolto alle istituzioni, agli educatori e ai siciliani tutti.

LA SICILIA DEGLI SCONFITTI: DA COSA RIPARTIRE? Tommaso Faro, studente al 3° anno in Lettere Moderne di Catania scrive: «Sono rimasto particolarmente colpito dalla mostra. Durante tutta la visita, il titolo “L’isola che non s’arrende (1968-1969)” continuava a risuonarmi in testa. Perché questo titolo? Le tre zone della mostra facevano vedere, in maniera molto viva grazie alle fotografie, tre grandi sfide poste ai siciliani in quegli anni. Il terremoto nel Belice, i moti studenteschi, la povertà dietro l’angolo, l’uccisione dei braccianti di Avola: tutti questi fatti furono come dei colpi ben assestati contro tutto ciò che socialmente e culturalmente poteva allora considerarsi consolidato e vissuto. Mi colpiva quindi vedere come in ogni caso al “colpo” seguiva una reazione dei siciliani. La risposta era sicuramente limitata e fallimentare per varie ragioni: penso ai soccorsi e ai reportage per i terremotati; penso alle storie di chi ha scelto la carità o l’ideologia di fronte alla povertà. Ma rimangono comunque delle risposte, una resistenza, un non volere arrendersi di fronte alla povertà. Nascono allora in me delle domande che sono il tesoro che mi porto a casa dopo questa mostra. Cosa abbiamo in comune io e le persone di cui si parla nella mostra? Cosa vuol dire per me non arrendersi, ora, qui dove sono? In nome di cosa vale la pena non arrendersi? Se mi guardo attorno, ad oggi la Sicilia mi sembra il regno degli arresi. Sono arresi i ragazzi, che cercano di andare via da qui il prima possibile, sono arresi gli adulti, che non hanno più le ragioni per cambiare la realtà, sono arresi gli anziani, che non hanno più le forze per cambiarla. Da cosa ripartire allora? Cosa ci rende veramente fecondi e veramente siciliani? Queste domande non sono sicuramente risolutive ma hanno aperto in me la possibilità di una strada diversa».

UNA TERRA IMBALSAMATA. Per Claudio Cutuli, studente di Scienze e lingue per la comunicazione, la Sicilia è ormai mummificata. «Agghiacciante, forte, ma dannatamente contemporanea. Sono riassumibili così le caratteristiche principali della mostra documentaria “La Sicilia che non s’arrende” […]. La mostra, curata nei minimi particolari, evidenzia tra le sue tante sfumature una perenne sofferenza di marca tipicamente sicula, una consuetudine per gli abitanti isolani, che trova nella drammaticità del post-sisma e nella disorganizzazione dei soccorsi un forte moto di denuncia sociale. Ciò che balza all’occhio, in particolar modo, è il fatto che da quel 1968 ad oggi non sembra sia trascorso poi così tanto tempo. Anzi, tutt’altro: la Sicilia conserva, ancora oggi, questo carattere poco gratificante di terra pressoché “imbalsamata”, con una mentalità arretrata e di conseguenza poco incline ai cambiamenti, dove il tempo scorre lentamente e l’innovazione stenta ad imporsi. Quasi come diretta conseguenza di tale fenomeno, è facile leggere nei quotidiani odierni (e nell’informazione ormai in gran parte digitalizzata) di giovani siciliani che cercano maggiori fortune altrove, andando ad alimentare il PIL di nazioni estere. Una resa incondizionata nei confronti di una terra che, senza mezze misure, dal punto di vista delle opportunità può essere definita inversamente proporzionale all’accoglienza che riesce a fornire ai tantissimi visitatori».

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