Nabil Bey Salameh: «Le soluzioni arriveranno dalle nuove generazioni, che andranno al di là delle barriere perché non troppo aggrovigliate dentro certi sentimenti»

Provate a immaginare di trovarvi in un caffè nella città vecchia a Gerusalemme alla fine degli anni Quaranta, mentre gli Hakawati – cantastorie custodi di un sapere antico – narrano vicende epiche e leggende. In questo contesto, sullo sfondo di anni drammatici che sconvolgeranno la vita nella Città Santa, si svolge la storia d’amore tra Nura (in arabo “luce”) e Mohe. Innamorati ma appartenenti a due realtà quanto mai distinte – lei palestinese, lui ebreo – i due vivranno una storia turbolenta, guidata da un unico barlume di luce: l’umanità.

Questa è la storia al centro di “Café Jerusalem”, spettacolo teatrale recentemente andato in scena per la “Biennale Arcipelago Mediterraneo” al “Real Teatro Santa Cecilia” di Palermo. Nato dall’incontro tra la band dei Radiodervish e la giornalista e scrittrice Paola Caridi, lo spettacolo vede in scena due attori (Carla Petroliero e Pino Petruzzelli, che firma la regia dello spettacolo) e i musicisti del gruppo. In occasione dell’evento abbiamo scambiato qualche parola con Nabil Bey Salameh, artista e giornalista palestinese da vent’anni anni leader del gruppo considerato tra i più rappresentativi della world music in Italia.

Cafè Jerusalem è una pièce teatrale, ma anche un album. Cosa vi ha spinto a lavorare su questo progetto?
«Quando si parla di Gerusalemme, spesso gli organi di stampa non raccontano ciò che accade, ma fanno propaganda. L’idea è stata allora quella di trattare un aspetto poco narrato; raccontare quest’amore quasi impossibile è un modo per sottolineare come – senza dimenticare l’esistenza di un popolo che è stato privato della propria memoria e storia – al di là dei giochi di potere della politica, sia necessario sempre partire dall’umano».

Questo partire dall’umano è una ricetta per il futuro?
«A volte c’è bisogno di passare il testimone a delle nuove realtà per rendersi conto che se finora una soluzione non si è trovata – a causa di una generazione troppo aggrovigliata dentro un sentimento – forse questa potrebbe rivelarsi nelle mani di chi verrà e sarà capace di andare oltre certe barriere».

Alcune delle generazioni di oggi, tuttavia, stanno ricominciando a costruire dei muri. L’arte è uno strumento per abbatterli?
«Premesso che la realtà che raccontiamo non è quella di una possibile pace tra due uguali, ma quella di un occupante e un occupato, credo che la politica stia speculando molto sulla paura, sulle barriere, sulle separazioni. La speranza è quella di avere i mezzi educativi per far capire un inganno basato sulla non conoscenza di chi sta dall’altra parte. In questo senso i nostri lavori artistici, musicali e letterari speriamo possano diventare spunto per una riflessione autentica».

I Radiodervish si formano nel 1997. Quali sono stati, in questo senso, i riscontri in questi vent’anni di attività?
«Senza dubbio ci sono stati molti momenti difficili. Abbiamo vissuto momenti storici dettati dalla paura e dalla fomentazione dell’odio, ma siamo sempre stati incoraggiati dalla passione per un certo immaginario, un sogno che si è presentato come fosse una stella polare. A guidarci è sempre stato lo spirito della condivisione con un pubblico disposto a guardare a certe realtà da una nuova prospettiva».

Recentemente lei ha firmato, assieme all’arabista Silvia Moresi, la traduzione del volume “Le mie poesie più belle” del poeta siriano Nizzar Qabbani. Di che si tratta?
«Nizzar Qabbani ha rivoluzionato la letteratura araba moderna: è stato paladino dei diritti della donna nel mondo arabo e per questo inviso a molte istituzioni governative e religiose. Una sua celebre frase dice “L’amore nel mondo arabo è prigioniero, io lo voglio liberare”. La scelta di tradurlo per renderlo comprensibile agli italiani è stata quindi motivata, ancora una volta, dalla voglia di spiegare come in una certa parte del mondo non esistano solo odio e violenza, ma anche persone che parlano di sensualità, amore, poesia. I riscontri sono stati molto positivi e da qualche tempo organizzo anche assieme a Massimo Coliazzo un reading bilingue in cui presento le sue poesie. Si intitola “Disegnare con le parole” ed è arricchito dalle mie musiche e dalle installazioni video di Carlo Mazzotta».

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