Il professor Daniele Malfitana, direttore dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del CNR, commenta i dati della nostra inchiesta Generazione 18

Generazione 18, il report curato da “Sicilian Post” e “Fondazione DSE” è una miniera di informazioni e dati che spingono a svariate riflessioni: riportano, infatti, il grido d’allarme di una generazione – quella dei diciottenni – che appare, senza mezzi termini, spaventata, disorientata e che sembra chiedere (molto sommessamente, in verità) l’indicazione di una strada da percorrere. Apprendere che i sogni cominciano a svanire già a 18 anni è davvero sconfortante e significa forse che qualcosa non ha funzionato bene nell’educazione da tutti noi trasmessa alle nuove generazioni. Di chi sono le responsabilità? Dei giovani o di noi adulti che non riusciamo a passare giuste coordinate e corretti messaggi? Preferisco chiaramente la seconda opzione, convinto, però, che se da un lato chi è più avanti negli anni, da genitore e da uomo impegnato nelle istituzioni, deve provare a tracciare un percorso più chiaro, dall’altro, anche i giovani devono dare una mano non facendoci mancare la loro fiducia. Altrimenti, noi lavoreremo a vuoto e loro continueranno a marciare al buio, parlando lingue diverse.

I giovani chiedono il cambiamento, ma è necessario che qualcuno infonda loro consapevolezza, oppure il rischio sarà quello di un salto nel vuoto

Di cosa hanno bisogno i giovani? Emerge, dal mio punto di vista, il loro bisogno di avere una palestra di addestramento (non lo dicono chiaramente, ma si coglie) dove si sollevino i giusti pesi, pena l’abbandono di un percorso di allenamento. I giovani insomma non vogliono scansare le fatiche, ma vogliono il cambiamento. Ci si chiederà verso dove? Si cambia da una situazione a un’altra; da uno status a un altro. Per cambiare, serve però qualcuno che ti spieghi cosa lasci e cosa trovi. Oppure, si cambia per moda, lasciando il certo per l’incerto. Anche questa via è praticabile ma può equivalere a un salto nel buio. Che la politica abbia dato pessimi indirizzi e abbia disorientato più che orientato come avrebbe dovuto fare in questi anni, è molto chiaro e su questo siamo ormai quasi tutti d’accordo, anche alla luce di quanto accaduto pochi giorni addietro. Tanto che qualcuno dei giovani intervistati si dice disposto ad attendere addirittura “il colpo di stato” per ritornare nel nostro Paese. Dobbiamo davvero arrivare a tanto?

È necessario educare, nel senso etimologico di tirare fuori qualcuno da un luogo verso un altro. Questo lo si fa con ragionato dialogo e sano equilibrio che facciano comprendere che conoscere di più equivale a sapere di più e, quindi, saper fare di più

Quale riflessione offrire, dunque? Dal mio punto di vista, quello di chi oggi gestisce la ricerca dentro un’istituzione pubblica che ha il preciso compito di produrre avanzamento delle conoscenze per il Paese, le soluzioni da poter prospettare ai diciottenni sono tante. Mi soffermo solo su alcune. Diciamo spesso, ad esempio, che è necessario investire sul capitale umano, educandolo a una sempre più complessa e completa conoscenza. Educandolo, nel significato etimologico di tirare fuori qualcuno da un luogo verso un altro. E questo lo si fa con ragionato dialogo e sano equilibrio che facciano comprendere che conoscere di più equivale a sapere di più e, quindi, saper fare di più. Per chi? Per se stessi e per il contesto in cui si vive. E ancora, sostenendo il merito e valorizzandolo. I giovani chiedono soprattutto questo: appare molto chiaro. Ma come si raggiunge il merito e come lo si valorizza? Valorizzare il merito e le capacità di un diciottenne che si appresta a entrare nel labirinto di un’università significa capire le qualità, o meglio “la qualità” del “suo” studio e delle “sue” esperienze sino ad allora maturate. E allora, torniamo al punto di partenza, alla necessità di investire seriamente in conoscenza, dedicandosi responsabilmente e seriamente a piantare pilastri stabili, dando qualità alle competenze. Ma, se ci sono qualità, serietà e responsabilità e manca un sistema meritocratico, tutto si complica e si innesca così quella voglia di far fuori tutta la politica, spesso mescolata alla scienza, augurandosi addirittura “un colpo di Stato”.

Noi diciottenni di trent’anni fa rimanevamo incantati dinnanzi all’archeologo che “dettava” le sue lezioni, oggi il diciottenne che giunge da noi smania dal voler vivere molteplici esperienze anche contemporaneamente. E allora, tutto confluisce nelle nostre capacità di saperci adattare a questi “cambiamenti” che  spesso vediamo in atto ma facciamo finta di non cogliere

Come si vede è un meccanismo che ruota attorno ad un cerchio chiuso che vede, contemporaneamente protagonisti, giovani diciottenni da un lato e noi cinquantenni dall’altro. E infine, aggiungo che occorrono esperienze. I diciottenni d’oggi sono diversi dai diciottenni di trent’anni fa: il contesto è nettamente diverso. Era meglio trent’anni fa o oggi? Sicuramente oggi, per il semplice fatto che oggi le opportunità per fare esperienze, formarsi e addestrarsi sono di gran lunga maggiori. Lo vedo nel mio Istituto e nel costante rapporto con i miei giovani studenti del corso di archeologia. Bisogna chiedersi se sia meglio tenerli incollati alla sedia per tre ore di fila e riempirli di dati e nozioni oppure trasmettere le stesse cose dinnanzi alle vetrine di un museo o davanti ai resti delle domus pompeiane. Noi diciottenni di trent’anni fa rimanevamo incantati dinnanzi all’archeologo che “dettava” le sue lezioni: avevamo fame di sapere e ci nutrivamo di quanto ci veniva illustrato rimanendo tre ore seduti nelle austere aule del palazzo centrale del nostro Ateneo. Oggi il diciottenne che giunge da noi, già fortemente tecnologizzato, smania dal voler vivere molteplici esperienze anche contemporaneamente; diventa naturale per lui chiedere di alternare teoria alla pratica e viceversa. E allora, tutto confluisce di nuovo nelle nostre capacità di saperci adattare a questi “cambiamenti” che i giovani invocano e che spesso noi vediamo in atto ma facciamo finta di non cogliere. È solo dall’interazione virtuosa tra le due generazioni, dei diciottenni e di noi cinquantenni, che si deve provare a costruire un percorso di miglioramento dell’insegnamento, di maggiore qualità del “fare” e, dunque, di esperienze. Aiuta tutto ciò a crescere e far crescere? Certamente sì. E se cresce il diciottenne verso una nuova direzione, cresce anche il cinquantenne verso la stessa direzione. Entrambi raggiungeranno, in tempi e modi diversi, il medesimo traguardo. È da questa connessione e da questo mescolamento di bisogni, di saperi, di competenze che si potrà assicurare un futuro ai nostri diciottenni.

In Sicilia la politica deve capire che la demagogia non serve a nulla e che servono scelte chiare, complete ed equilibrate

È lecito, poi, chiedersi: fare tutto questo in Sicilia è possibile? Penso di sì, abbiamo il dovere di farlo. La politica, che stenta ancora a decollare, deve capire la scienza e la ricerca; deve capire, soprattutto, che la demagogia sino a oggi praticata non ha prodotto nulla e che servono priorità e scelte strategiche condivise e sentite da chi vive dentro le istituzioni. L’incapacità di operare scelte chiare, concrete ed equilibrate come è spesso avvenuto e come ancora avviene, ha prodotto solo sfaldamenti ed estremismi non più ripetibili. E allora, svegliamoci tutti per mettere a sistema potenzialità ed energie vive che nei tanti diciottenni ci sono, per aprire così nuove opportunità in cui capacità imprenditoriali, competenze professionali, risveglio della società civile, giovane e meno giovane, servano a dare una rinnovata centralità alla nostra terra e al nostro Mediterraneo.


Daniele Malfitana, 49 anni, archeologo classico formatosi all’Università di Catania, specializzato in archeologia, dottorato in archeologia greca e romana, studi all’estero (Leuven e Oxford), dal 2011 dirige il più grande istituto di ricerca del CNR italiano, l’Istituto per i beni archeologici e monumentali (IBAM), unico per Italia meridionale e Sicilia ad occuparsi di ricerche d’eccellenza applicate all’archeologia e al patrimonio culturale del Mediterraneo. L’Istituto ha sede a Catania e sezioni a Lecce, Potenza, Cosenza e Palermo con oltre 100 unità di personale. Sposato con Stefania, archeologa classica, ha due figli, Chiara e Dario, di 14 e 10 anni.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email