La studiosa, autrice di tre volumi che affrontano il tema da prospettive diverse, ha scandagliato l’universo dei meccanismi che animano il capolavoro di Tomasi di Lampedusa.

Abbiamo tutti un Tomasi di Lampedusa nella libreria domestica. Chi da ragazzo non ha dovuto sperimentarne la lettura fra i banchi di scuola? Tuttavia il primo approccio è per molti un disastro: per spronare ad aprire un libro non basta inserirlo nei programmi scolastici, bisogna dinamizzare la lettura, destare la curiosità del lettore, lasciare che questi se ne innamori, toccandone le pagine e il cuore. Con i suoi saggi sul Gattopardo Maria Antonietta Ferraloro ha fatto proprio questo. Da Tomasi di Lampedusa e i luoghi del Gattopardo (Pacini Editore, 2014) a L’opera orologio – Saggi sul Gattopardo (Pacini Editore, 2017) fino a Il Gattopardo raccontato a mia figlia (La Nuova Frontiera junior, 2017), uscito proprio in questi giorni, il lavoro della studiosa siciliana ha sviscerato prospettive inedite sul capolavoro di Tomasi.  Ne “L’opera orologio”, ad esempio, l’autrice si addentra in alcuni meccanismi chiave proponendo una nuova lettura: «Il titolo di questa mia seconda uscita – spiega – nasce dalle lezioni di Tomasi, che invitava i suoi alunni a immaginare l’opera letteraria come un orologio da smontare per osservare da vicino congegni e carpirne il funzionamento». 

Come è nato il suo amore per Il Gattopardo?
«Come spiego in “Il Gattopardo raccontato a mia figlia”, il primo approccio fu un disastro. Ero all’ultimo anno delle scuole medie, un mio professore, Giuseppe Celona, portò in classe il libro invitandoci a leggerlo. Si trattava di una scelta sentita perché Tomasi aveva soggiornato nel 1943 a Ficarra, dove anch’io ho vissuto per vent’anni. Quando, cresciuta, ripresi in mano Il Gattopardo fu amore travolgente: il testo è diventato il mio punto di riferimento e mi ha accompagnato lungo la mia carriera d’insegnante, dapprima a scuola e poi all’università, dove ho curato un laboratorio sulla letteratura e i luoghi».

A proposito di luoghi, perché il soggiorno di Tomasi di Lampedusa a Ficarra fu così importante? E cosa ha originato queste sue ricerche?
«Tutto è iniziato durante la mia tesi di dottorato, firmata da Andrea Manganaro. Le mie ricerche erano volte a dimostrare che il soggiorno a Ficarra, fra la calura estiva e l’infuriare del secondo conflitto mondiale, avesse apportato qualcosa alla cartografia del Gattopardo. La tesi è stata in gestazione per cinque anni ed è stata seguita dal mio primo volume. Adesso Ficarra, piccolo borgo sui Nebrodi, è considerato topos dell’anima gattopardiana e meta di turismo culturale. Qui a luglio sono state dedicate due giornate a Tomasi, durante le quali è stata inaugurata la statua del “Soldato morto”: ho dimostrato, attraverso una ricostruzione storico-letteraria, che il soldatino borbonico trovato morto nel giardino di Villa Salina di cui leggiamo nel capolavoro, è legato ad un evento che si consumò a Ficarra nel periodo in cui Tomasi vi soggiornò».

Perché il Gattopardo non può essere considerato un romanzo storico? In che modo l’immagine suggerita, nel suo secondo libro, dall’orologio può aiutare a comprenderlo?
«La risposta si trova in un pensiero di Aristotele: “la poesia è più filosofica e più seria della storia perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale mentre la storia racconta i particolari”. Tomasi assicura il verosimile, non il vero, e filtra sempre il dato storico attraverso lo sguardo del poeta che, con le sue creazioni, penetra il segreto delle cose. L’oggettività della storia è solo una delle lancette dell’orologio gattopardiano che rincorre, con fatica, l’altra, quella del vissuto soggettivo dei suoi personaggi. E se sporadicamente le due lancette riescono a toccarsi, alla fine ogni dodici ore riprende il giro. Che significa? “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Sul palcoscenico della rappresentazione narrativa di Tomasi c’è la storia delle persone. A ciò si lega la descrizione del Garibaldi ferito, non a caso rappresentato nei suoi tratti più umani, quelli dell’uomo sofferente: è come se miniaturizzasse l’historia rerum gestarum».

«L’oggettività della storia è solo una delle lancette dell’orologio gattopardiano che rincorre, con fatica, l’altra, quella del vissuto soggettivo dei suoi personaggi»

Nel capolavoro di Tomasi l’idea del fallimento risorgimentale si manifesta proprio nell’immagine offerta del re dei Mille. Come mai la sensazione di fallimento si acuisce negli anni ’50, quando scrive l’autore?
«Erano gli anni in cui si affacciava all’orizzonte il boom economico che lasciava intravedere una sorte progressiva per l’Italia. Tomasi, da quella Sicilia teatro del mondo, vede il fremito di una tempesta imminente. In quel periodo era inoltre molto acceso il dibattito intorno alla questione meridionale. Tomasi, da fine e attento storico, oltre che da lettore onnivoro, condensa nel Gattopardo le riflessioni dei più grandi studiosi del tempo che masticano il risorgimento tradito».

Maria Antonietta Ferraloro

Il Gattopardo e la «social catena» della Ginestra. Tomasi era un amante lettore di Leopardi?
«Nel momento in cui apri un libro, apri uno scrigno e ognuno di noi dentro l’opera trova gli echi degli autori amati. Tomasi amava molto Leopardi, con cui fra l’altro era legato da un lontano rapporto di parentela. Il punto di contatto è un’intuizione del grande Samonà: nel ballo a palazzo Ponteleone in cui per la prima volta, come con un percorso iniziatico, è ammessa la borghese Angelica, don Fabrizio vede gli uomini per ciò che sono, bestie destinate al macello. Se tutti siamo condannati a morire perché non recuperiamo l’humana pietas?»

Che ruolo riveste il bestiario?
«Si lega al tema del solidarismo. I vari animali fungono da misure di paragone che riflettono l’universale dell’animo umano a cui l’autore ricorre in momenti di grande tensione emotiva. Degno di nota il binomio Mariannina-Bendicò. La prostituta nell’economia del romanzo sembrerebbe avere scarso rilievo ma il suo accostamento all’alano, la cui presenza scandisce l’evolversi del narrato, tradisce per la prima volta l’umanità di don Fabrizio. Bendicò incarna la purezza dei sentimenti, la stessa riconosciuta dunque a Mariannina».

«Nel momento in cui apri un libro, apri uno scrigno e ognuno di noi dentro l’opera trova gli echi degli autori amati. Tomasi amava molto Leopardi, con cui fra l’altro era legato da un lontano rapporto di parentela»

Il gatto-falco Tancredi, il gattopardo don Fabrizio, la iena don Calogero: si può parlare di un vincitore?
«Non vince nessuno, neanche l’amore: è un romanzo amaro sull’approdo ineluttabile alla morte. Alla fine del capostipite sopravvivono due figure: Angelica, appesantita dagli anni, che ha incarnato il trasformismo politico, il cui amore con Tancredi è naufragato fra i tradimenti; e Concetta, tenuta in vita dal livore, che impartisce ai suoi servitori di buttare via il trappeto tarlato di Bendicò con la cui uscita di scena si chiude il romanzo. Su questo epilogo così tetro si solleva ancora una volta un messaggio: il solidarismo. Nessuno, vuole dirci il principe, può salvarsi da solo».

Il Gattopardo e la psicanalisi. C’è un nesso tradito dalla predominanza dei soliloqui sui dialoghi?
«Anche. La moglie di Tomasi di Lampedusa fu la prima donna Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, che lei stessa aveva contribuito a fondare, ma Lampedusa mai si sottopose ad analisi, pur nutrendo sinceri interessi. Secondo me avrebbe sottoscritto le considerazioni di Svevo per il quale la psicanalisi serve più agli scrittori che alle persone».

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