Era il 2007 quando lo scrittore John Maloof acquistò all’asta, senza saperlo, l’immenso patrimonio di negativi appartenente alla donna. Passarono due anni prima che si rendesse conto del loro valore e li sviluppasse: da quel momento il mondo rimase ammaliato dalla potenza e dalla semplicità di quegli scatti, frammenti di vita quotidiana che scorre, come il sorriso di un’adolescente o un oggetto abbandonato

Essere una delle più grandi fotografe al mondo senza prenderne mai coscienza. Questa in estrema sintesi la verità sulla vita di Vivian Maier, la bambinaia fotografa. Ma andiamo con ordine. Nel 2007, uno sconosciuto di nome John Maloof compra ad un’asta una scatola di negativi che il battitore aveva presentato come scatti fotografici su Chicago. Maloof all’epoca stava scrivendo un libro su un quartiere di Chicago e per questo pensò di acquistare quei negativi, cui però poi inizialmente non fu particolarmente interessato, tanto che la scatola finì in un armadio per circa due anni.

In seguito decise di sviluppare alcuni rullini e un mondo gli si aprì letteralmente davanti. Le foto cominciarono a vendersi e Maloof si rese conto che chi le aveva scattate aveva un occhio, una singolarità, un’originalità e una bravura unica. Chi era quel fotografo? Maloof venne a sapere subito che il proprietario di quella scatola di negativi era una donna. Si chiamava Vivian Maier. A quel punto, cominciò a cercar notizie sulla Maier nel modo più semplice ed immediato: scrivendo il suo nome sul motore di ricerca di Google; era convinto che fosse una fotografa o quanto meno una giornalista e invece l’unica informazione che trovò su di lei fu un necrologio che ne riportava il decesso di qualche mese prima, 21 aprile 2009. Prese contatto con chi aveva fatto pubblicare il necrologio e scoprì cosa facesse Vivian Maier nella vita, la baby-sitter. A far pubblicare la notizia del decesso erano stati due ex-bambini di cui si era presa cura anni prima e che poi, a loro volta, si presero cura di lei quando divenne anziana e probabilmente anche molto indigente.

Vivian Maier, indiscutibilmente una delle più grandi fotografe del Novecento, non fotografava per caso. Viveva di fotografia, tanto che per lei era come l’aria che respirava. Per Vivian scattare foto era questo: il sollievo costante dalle fatiche quotidiane. Forse la medicina contro tutto quello che le era andato storto nella vita. I suoi dodici scatti quotidiani, uno dei quali era un autoritratto, erano il suo modo, preciso, determinato, ragionato, di gridare silenziosamente la sua esistenza di semplice bambinaia.

Con uno spirito curioso e una particolare attenzione ai dettagli, come si nota dalla foto scelta, Vivian ritrae le strade di New York e Chicago, i suoi abitanti, i bambini, le adolescenti, gli animali, gli oggetti abbandonati, i graffiti, i giornali e tutto ciò che le scorre davanti agli occhi. Pur lavorando nei quartieri borghesi, dai suoi scatti emerge un certo fascino verso chi è lasciato da parte. Al collo aveva sempre una Rolleiflex. Scattò oltre 150 mila immagini, un archivio immenso.Le ricerche sulla sua vita hanno portato alla luce un quadro pieno di zone d’ombra e l’unica cosa certa è il fatto che tutta la famiglia Maier sembra essersi data molto da fare nel cercare di non farsi notare, di non lasciar tracce di sé. Vivian, nata a New York il 2 febbraio 1926 da genitori europei, ha avuto da subito una vita molto travagliata. Appena compiuti 3 anni i genitori si separarono e Vivian rimase con la madre, presso un’amica francese che viveva nel Bronx di nome Jeanne Bertrand, che come lavoro faceva la fotografa professionista. Fu lei che le trasmise la passione per la fotografia.

La Maier non si riconosceva come una fotografa. «Sono come una spia – diceva scherzosamente di sé – una spia che scandaglia i particolari invisibili della realtà». La sua vita è stata segnata da migliaia e migliaia di attimi decisivi, di immagini che parlano da sole. I suoi scatti, come ogni grande immagine, non hanno bisogno di una didascalia. Secondo tante testimonianze raccolte, Vivian non prediligeva fare la bambinaia, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini la adoravano. Per tantissimi «era come Mary Poppins».

La madre Maria morì nel 1975 e Vivian, a 49 anni, si ritrovò sola, ma, sempre animata dalla sua grande passione per la fotografia. Continuò a guadagnarsi da vivere come bambinaia. Non si conoscono tutte le famiglie presso le quali prestò servizio, ma si sa che nel 1987 si presentò ai coniugi Usiskin, suoi nuovi datori di lavoro, portando con sé 200 casse di cartone contenenti il suo archivio personale, che furono immagazzinate in un box. Dal 1989 al 1993 Vivian si prese cura con grande umanità di Chiara Bayleander, un’adolescente con handicap mentale. Mentre l’età avanzava, Vivian si trovò ad attraversare gravi difficoltà finanziarie. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire in un altro box di un magazzino preso in affitto. Sul finire del 2008, Vivian ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio: battè la testa e fu ricoverata in ospedale. Morì dopo poco tempo, il 21 aprile 2009, senza che lei sapesse che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta e che John Maloof, valorizzando la sua opera, la stava cercando per incontrarla.

Oggi Vivian viene paragonata a fotografi come Henry Cartier Bresson o Robert Louis Frank. Negli Stati Uniti e in Europa la gente fa la fila a ogni sua mostra, pronta a emozionarsi davanti ai ritratti di ragazzine scattati per le strade delle metropoli americane.

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