Quando anche un’abitudine consolidata nasconde significati più profondi, ecco che la letteratura ci viene puntualmente in soccorso per darci la chiave di lettura. Partendo dal romanzo dello scrittore pachinese, trasposto in televisione nel 1960 con le interpretazioni di Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, ci immergiamo nel tema del torpore per scoprire da cosa nasce e perché si addice tanto ad un abitante dell’isola

Vi siete mai chiesti da cosa dipenda quella sporadica ed insopprimibile esigenza di fare un riposino dopo pranzo? Ci credereste se vi dicessero che, più che una pratica, questa abitudine siciliana può a tutti gli effetti rappresentare una metafora esistenziale? Non è un caso, infatti, che questo aspetto non sia sfuggito agli scrittori nostrani. Ma ce n’è uno che del tema del torpore siciliano è stato grande cantore e acutissimo osservatore: ci riferiamo al pachinese Vitaliano Brancati e al suo romanzo, datato 1949, Il bell’Antonio. Ambientato nella fittizia città di Natàca – dietro cui, senza troppo sforzo, si intravede Catania – degli anni ’30, e quindi in pieno regime fascista, l’opera dedica ampio spazio al tratteggiamento di questa peculiare attitudine. Sonno come metafora, si diceva: ma di cosa, esattamente?

Se nel romanzo brancatiano questo approccio quasi sonnambulistico alla vita veniva declinato nella diffidenza verso chi si riempiva trionfalmente la bocca di slogan antifascisti senza poi passare all’azione e nella difesa degli affetti(e anche degli effetti) personali, non molto diversa, seppur a considerevole distanza di tempo, sembra la prospettiva oggi. Uno dei comun denominatori dell’essere siciliano è un’endemica rassegnazione, una vitalità smussata dalle circostanze, una cronica sfiducia verso ciò che ci circonda, che siano le istituzioni o i rapporti interpersonali. Paradossalmente, però, preso com’è tra il fastidio delle sue preoccupazioni e le invettive contro quella sorte che sembra fin troppo avversa, il siciliano ha fatto di questa sua inclinazione un vero e proprio meccanismo di difesa, una campana di vetro dentro cui trincerarsi ostinatamente e convintamente in modo che la realtà non intervenga bruscamente a smaterializzare i suoi sogni. Potrebbe sembrare un atteggiamento rinunciatario, scettico, addirittura desideroso di una quiete quasi mortifera: non c’è dubbio che in questi aggettivi risieda una parte di verità.

È altrettanto vero che questo tipo di protezione, a ben guardare, può anche risultare come un efficace antidoto: contro le false ideologie (come nel caso dei fascisti del romanzo), contro i sostenitori di un progresso illusorio, contro chi vorrebbe spingerci ad essere diversi da come siamo. L’indolenza è per il siciliano, dunque, la condotta rivoluzionaria di chi non si lascia trasportare da facili entusiasmi, di chi conosce le insidie e le trappole che la storia, coi suoi inganni, tende al suo orizzonte privato, unico luogo dove gli è possibile farsi forte di qualche certezza, di chi sceglie il silenzio e l’indifferenza per manifestare il suo disagio. Come un cane randagio, abbandonato quando meno se l’aspettava, quando più aveva bisogno del suo padrone, così il siciliano guarda con sospetto coloro che si fidano con troppa facilità, perché teme che, aprendosi a nuove curiosità, le ferite non ancora rimarginate tornino a bruciare. Potremmo dire che se lo scorrere del tempo appare monotono, infatti, e che se cade ogni speranza di trovare un senso ad una realtà sempre più caotica dove si recita sempre la parte del vinto e mai quella del vincitore, allora meglio essere perdenti attenendosi ad un copione personalissimo piuttosto che inseguire le vuote promesse altrui.

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