Il legame tra una madre e la creatura da lei partorita è più forte di ogni paura: così Serafina Battaglia ha superato ogni remora denunciando con implacabili parole i colpevoli dell’omicidio di suo figlio.

IL FATTO. 30 Gennaio 1962: per la prima volta una donna ha il coraggio di “pentirsi” e testimoniare contro quelli stessi mafiosi con cui aveva vissuto e che le avevano portato via prima il marito, Stefano Leale, e poi il figlio, Totuccio. A seguito dell’omicidio di Stefano nel 1960, la stessa Serafina si era affidata alla tradizionale logica della vendetta invitando il figlio Salvatore a organizzare una rappresaglia contro Filippo e Vincenzo Rimi, i due boss di Alcamo mandanti dell’uccisione di Leale. L’attentato fallì e la reazione dei mafiosi fu inevitabile: Salvatore Leale venne ucciso.

DALLA VENDETTA ALLA GIUSTIZIA. Senso di colpa? Senso di giustizia? Finchè le avevano portato via soltanto il marito, Serafina aveva ubbidito alla logica del “non vedo, non sento e non parlo”, ma nel momento in cui fu privata del sangue del suo sangue un bisogno di giustizia, giustizia vera, la infiammò. Avviato il processo contro Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia, accusati dell’omicidio di Salvatore Leale, Serafina testimoniò contro il sistema mafioso e non ebbe timore nel rivelare come si era svolto l’assassinio. L’unico giudice disposto ad ascoltarla fu Cesare Terranova, non a caso ucciso dalla mafia nel 1979. Nessun avvocato volle difendere Serafina e l’unico che cercò di aiutarla a trovare un rappresentante legale fu Mario Francese, giornalista del “Giornale di Sicilia” anch’egli vittima di Cosa Nostra nello stesso ’79.

L’AMARA SCONFITTA. Il processo andò per le lunghe e nel frattempo Serafina non si arrese, ma andò a testimoniare in altri procedimenti penali in giro per l’Italia. La sua tenacia tuttavia non fu ripagata: nel 1971 la condanna dei tre malavitosi suddetti fu annullata dalla Cassazione e il 13 Febbraio 1979 Filippo e Vincenzo Rimi, i mandanti dei due omicidi Leale, furono assolti per insufficienza di prove. La “vedova della lupara”, così come la stampa la soprannominò, partecipò con ardore ai processi senza temere nessuno: le cronache dell’epoca raccontano che Serafina, con il suo fazzoletto nero avvolto in testa e le occhiaie profonde di una madre distrutta dal dolore, si avvicinava alle celle degli imputati sputando su di loro e si inginocchiava davanti ai giudici implorando vanamente giustizia.

UNA FONTE POCO SFRUTTATA. «Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo…» (Serafina Battaglia al giornalista Mauro De Mauro in un’intervista per “L’Ora”, 21 Gennaio 1964). Con questa grinta la donna esortava tutte le altre madri e mogli di mafiosi a pentirsi e confessare, nonostante la sua vicenda non abbia avuto l’esito sperato. Il lutto per Serafina è stata la spinta definitiva a rompere con quei mafiosi che frequentavano la bottega di caffè del marito e di cui sapeva tutto: la sua onniscienza l’avrebbe resa particolarmente pericolosa, se solo i giudici l’avessero ascoltata, come fece Terranova. Ella diceva di fidarsi “relativamente” della giustizia: come darle torto?

UN GESTO DA SEGUIRE. Caduta nel dimenticatoio dopo l’archiviazione del processo, la “vedova della lupara” è morta nella sua casa di Palermo il 10 Settembre 2004. Fino alla fine dei suoi giorni portò sempre con sé una pistola, non perché volesse vendicarsi, ma per procurarsi da sola quella difesa che nessuno le diede. Neppure la giustizia le ha dato ciò che meritava, ma le sue azioni non sono state vane: altre donne hanno seguito il suo esempio e questo ha reso meritatamente onore al suo gesto.

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