Ogni rintocco un nome, ogni nome un corpo. 262: questo numero basta per ricordare il dramma che il Belgio, e l’Europa tutta, visse l’8 agosto del 1956. «Tutti cadaveri». Con queste parole si chiuse la notte del 22 agosto uno dei capitoli più bui della storia europea. Una tragedia annunciata, come altre, dall’incuria di condizioni di lavoro inadeguate, dalla miseria in cui questi uomini erano costretti a vivere. L’8 agosto del 1956 alle ore 08:10 il paese di Marcinelle, in Belgio, si sveglia in preda al terrore: un incidente in miniera ha innescato una serie di catastrofi che portano in poco tempo all’incendio che ucciderà 262 uomini sui 275 di turno in quel momento. Una strage, un disastro, come oggi alcuni ricordano, di sicuro il primo incidente per morti sul lavoro dell’Europa. 11 le nazionalità coinvolte, la più colpita l’Italia con i suoi 136 figli giunti in Belgio per cercare il riscatto agognato dopo la fine della guerra.

«Sono stato venduto per un sacco di carbone»

...Per un sacco di carbone - Sicilian Post

STRANIERI E DISPERATI. Gli italiani nella terra di Bruxelles erano tanti: il nuovo governo da poco formatosi aveva firmato con il Belgio il protocollo del 23 giugno 1946, col quale aveva promesso, e neanche tanto tra le righe, di vendere i propri connazionali in cambio di carbone, come ricorda la giornalista Maria Laura Franciosi nel suo testo pubblicato nel 1996 dal titolo …Per un sacco di carbone: «Nell’accordo – racconta l’inviata ANSA – si prevedeva anche un invio di carbone da parte del Belgio all’Italia per rilanciare la nostra industria, carbone che però veniva pagato ad un prezzo di favore e stabilito sulla base di quello estratto dagli operai italiani». La Franciosi è oggi la detentrice della memoria storica di quei minatori: «Ero arrivata da poco a Bruxelles quando mi fermai a parlare con dei signori, uno di loro mi disse “Signò, io sono stato venduto per un sacco di carbone” la cosa mi incuriosì molto e così iniziai le mie ricerche». La storia però non le era del tutto nuova: «Io sono nata nel ’41, ero già adolescente quando avvenne la tragedia, ricordo le notizie alla radio. Il tutto si protrasse per oltre 15 giorni. Ci fu una grande copertura mediatica soprattutto da parte del Belgio, arrivò perfino il giovane sovrano Baldovino».

La volontà dell’inviata di rendere giustizia a questa tragedia si è trasformata nella possibilità di farne parte: «Ad un certo punto si pensò di fare uno shopping center nel luogo dove sorgeva la miniera della strage, Bois du Canzier. Io decisi di rivolgermi al sindaco, ci scontrammo a muso duro e quando vidi che non avevano intenzione di preservarne la memoria contattai i miei colleghi giornalisti. Non solo salvammo dalla distruzione lo stabilimento, ma oggi oltre ad essere un museo è stato inserito tra i patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO». La giornalista, che oggi ha 79 anni, nella sua carriera ha intervistato più di 150 minatori, con storie tra le più disparate ma tutte accomunate dal viaggio della speranza.

«L’unica differenza delle loro abitazioni con quelle nei campi di concentramento è che qui avevano al centro una stufa e due coperte di lana»

La prima pagina de “La Sicilia” dell’epoca

COME BESTIE. «Andate in Belgio, il viaggio durerà solo 36 ore»: così recitavano i volantini rosa che venivano distribuiti nel lontano 1946 affascinando i giovani zolfatari siciliani stremati da mansioni e orari di lavoro massacranti. Il viaggio consisteva in una vera Odissea, molto diversa da quella promessa, come ci racconta Alessandro Idonea, attore siciliano che dell’esperienza di Marcinelle si è fatto portavoce con lo spettacolo 262 vestiti appesi da lui realizzato e messo in scena all’interno della miniera di Bois du Canzier: «Gli uomini si dovevano presentare ad un primo controllo medico nelle città di provenienza. Il viaggio verso Milano poteva durare dagli otto ai dieci giorni, qui una seconda visita. Quando il convoglio era pieno si partiva in treni bestiame chiusi con i lucchetti per evitare che qualcuno potesse lanciarsi giù verso la Svizzera». L’arrivo in Belgio prevedeva un terzo esame medico: chi lo superava veniva portato in dei baracconi, le cosidette Toles: «L’unica differenza con i campi di concentramento era che qui avevano al centro una stufa e due coperte di lana» continua l’attore. Cercavano una vita migliore questi italiani, ma era difficile riuscirci quando erano trattati come animali: nell’osteria di fronte alla miniera conservata come un cimelio la scritta Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani.

Ma questo era l’ultimo dei loro problemi perché arrivati in terra straniera dovevano sottoscrivere il contratto di lavoro che tutti firmavano, ma che quasi nessuno, per via della lingua, capiva. Così di quella clausola di rescissione e condanna in pochi sapevano: «Se tu volevi rescindere il contratto avevi sette giorni di tempo – racconta Alessandro Idonea –, superato l’ottavo dovevi lavorare per almeno tre anni per poter ripagare la dotazione che ti avevano consegnato all’inizio. Chi proprio non resisteva poteva andare al petit château, il piccolo castello, come chiamavano la prigione. Le condizioni erano così terribili che dopo dieci giorni si era disposti a tornare in miniera».

«Quando c’ho mandato i soldi al paese si è scassata una piazza»

PER UN PUGNO DI SPICCIOLI. Una vita ostile quella del Belgio che era risarcita dal lauto compenso che questi uomini ricevevano: «Una volta – ricorda la Franciosi – un uomo mi disse “Signò quando c’ho mandato i soldi al paese si è scassata una piazza”. In modo alquanto bizzarro, poiché non si fidava della Banca, aveva mandato i soldi alla moglie che nel frattempo aveva comprato a credito. Il paese si era scassato perché da quel gruzzolo tutti ci guadagnavano. Questo indica il valore della migrazione che è sempre una ricchezza». I volti dei protagonisti lei li ha conosciuti quasi tutti, tra le testimonianze più strazianti quella di Silvio di Luzio, minatore che scese all’interno della bolgia dantesca negli attimi successivi all’incendio per cercare invano dei sopravvissuti e trovare il tragico messaggio lasciato da un gruppo di poveri disgraziati che tentava la fuga dal fumo asfissiante.

«Li mineri di lu Belgiu, li mineri di carbuni: sunnu niri niri niri comu sangu di draguni» (I. Buttitta)

Il loro ricordo viene oggi tramandato da persone come la giornalista Franciosi e l’attore Idonea che nonostante la differenza di età, background e vita hanno trovato in questo evento l’espressione di una solidarietà internazionale: «Quello che più mi ha colpito – conclude l’attore – è stato pensare ai vestiti appesi, ecco perché ho dedicato a loro il mio spettacolo. Quando entravano in miniera questi uomini appendevano in dei ganci i loro abiti e li salivano su così da non sporcarli con il carbone, finito il turno lavavano la divisa e la mettevano sui ganci al posto degli abiti. Così ho immaginato che quel giorno i vestiti siano rimasti là appesi».

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