Il neuroscienziato italiano protagonista di un incontro alla Scuola Superiore di Catania: «Tutti i meccanismi biologici possono essere modificati entro certi limiti, ma questo espone a grandi rischi: cosa accade quando un’ideologia cerca di distruggere la convinzione che siamo tutti esseri umani?»

L’empatia ha una base fisiologica. Si potrebbe sintetizzare così il principale risvolto della ricerca che ha reso celebre Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato italiano che negli anni Novanta guidò il team di ricercatori che scoprì l’esistenza dei “neuroni specchio”. Il professore, vincitore del “Brain Prize for Neuroscience” e di una moltitudine di riconoscimenti scientifici (tra cui il recente premio “Lombardia è ricerca” da un milione di euro), è stato protagonista di uno dei più attesi “Colloquia” della “Scuola Superiore di Catania”. L’incontro dal titolo “Il Meccanismo Mirror: passato, presente e futuro”, è stato introdotto dal presidente della Scuola prof. Francesco Priolo e ha visto gli interventi dei docenti dell’Università di Catania Mario Zappia e Vincenzo Perciavalle. In occasione dell’evento abbiamo avuto l’opportunità di scambiare qualche parola con il grande scienziato in merito ai suoi studi e alle implicazioni che questi hanno in ambito scientifico e sociale.

Professore, in cosa consiste il meccanismo dei neuroni specchio?
«Il nostro primo studio, condotto nel 1992 su delle scimmie, ha evidenziato come lo stesso neurone che si attiva quando un soggetto compie un’azione si accenda anche quando la scimmia vede compiere la stessa azione a un altro individuo. C’è una congruenza tra lo scopo dell’azione del soggetto e quella che vede fare. Si tratta di un meccanismo di base, presente anche nell’uomo, che tuttavia non va confuso con l’imitazione, propria solo della nostra specie. Con il tempo i nostri studi sono progrediti e oggi, a distanza di oltre venticinque anni da quel primo lavoro, siamo arrivati ad applicare il principio dei neuroni specchio alle emozioni».

«Le emozioni proprie sono quelle che t’impediscono di proseguire la tua attività, come l’ira, il disgusto o la gioia.
Nel linguaggio comune invece tutto è emozione»

A proposito di emozioni, pochi anni fa diede molto da parlare il film “Inside Out”, che personificava queste ultime nella mente di una ragazzina. Come funzioniamo in realtà?
«Quando è uscito quel film mi è stato chiesto di commentarlo ma non l’ho voluto fare proprio perché la realtà è molto diversa. Le emozioni in senso proprio, come le ha definite Darwin, sono degli stati particolari che intervengono in un certo momento interrompendo il nostro normale comportamento. Ad esempio, se mentre parliamo arrivasse un orso bianco la nostra reazione sarebbe fuggire. Le emozioni proprie sono quelle che t’impediscono di proseguire la tua attività, come ira, disgusto o gioia. Nel linguaggio comune invece tutto è emozione e con questo termine si definiscono altri stati come la gelosia». 

Il professor Giacomo Rizzolatti alla Scuola Superiore di Catania
(foto Giorgio Romeo)

Quindi sono emozioni proprie quelle che solitamente definiamo “di pancia”?
«In un certo senso sì. C’è da dire però che l’uomo, a differenza di altri animali, ha una permanenza della memoria delle emozioni. L’esempio che viene fatto dagli etologi è quello di un branco di antilopi attaccate da un leone. Sul momento tutte scappano e hanno paura esattamente come noi, ma tre minuti dopo torneranno a brucare l’erba tranquille perché non hanno il ricordo cosciente di ciò che è avvenuto e di come evitarlo. Al contrario se, ad esempio, prendiamo un attentato terroristico, nei giorni successivi gli uomini penseranno a come reagire e come evitare che se ne verifichino altri».

«Il sistema dei neuroni specchio è un meccanismo di base, che ci fa solamente riconoscere lo stato dell’altro, non ha ruolo nel nostro agire bene o male»

Il meccanismo mirror potrebbe spiegare il nostro essere solidali con gli altri?
«Potrebbe, ma non necessariamente. Il sistema dei neuroni specchio è un meccanismo di base, che ci fa solamente riconoscere lo stato dell’altro, non ha ruolo nel nostro agire bene o male. Se vedo una persona soffrire e questa persona è mia amica cercherò di aiutarla, se invece siamo in guerra ed è un mio nemico, capisco che sta male, ma potrei ucciderla».

In questo senso, quanto impatta la società su queste logiche? E quanto possono interferire le ideologie?
«Credo che tutti i meccanismi biologici possano essere modificati entro certi limiti, ma questo espone a grandi rischi. Nella nostra società siamo convinti di essere tutti umani, ma cosa avviene se un’ideologia cerca di distruggere questa convinzione? Quando Annah Arendt descrive il male come “banale” raccontando il processo di Eichmann a Gerusalemme ha ragione. Perché lui, pur essendo uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista, non era un mostro. Addirittura, uno dei tre psichiatri che lo analizzò lo descrisse come un uomo dai sentimenti nobili, che amava la famiglia e la patria. Semplicemente, in seguito alla propaganda di Goebbels (ancora più che di Hitler), egli aveva deciso che una parte della popolazione non era umana. E quindi, se per il bene della nazione e per il bene degli altri individui bisognava sopprimerla non c’era niente di male. È questo il punto, che è anche quello più pericoloso: alcune persone aderenti all’Isis non sono mostri in senso stretto, ma sono stati convinti che chi ha tradito la fede non è più un essere umano».

«In un certo senso le religioni antiche hanno codificato ciò che già esisteva in natura. Ad esempio il precetto “ama il prossimo tuo come te stesso” è il rafforzamento di un processo biologico»

Proprio riguardo alla fede e alla religione. In che modo questa si relaziona alla sua scoperta?
«In un certo senso le religioni antiche hanno codificato ciò che già esisteva in natura. Prendiamo ad esempio il precetto: ama il prossimo tuo come te stesso. È un rafforzamento di un processo biologico, che è stato veicolato nel modo più opportuno a una società primitiva molto più predisposta ad accettare l’idea di un profeta che scende da una montagna dicendo che Dio gli ha dettato i comandamenti. Del resto questi ultimi non sono a caso, sono utili per la nostra sopravvivenza. È in virtù di questo meccanismo che la mamma si sacrifica per il bambino. Questo senso di empatia buona c’è, sennò la mamma lascerebbe il bambino e andrebbe a divertirsi».

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