La direttrice del Teatro etneo: «Lo spettatore non dev’essere un fruitore passivo alla ricerca di sollecitazioni spicciole, ma sviluppare spirito critico per valutare la qualità degli spettacoli»

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]I[/dropcap]n un Teatro Stabile non è saggio fare rivoluzioni, bensì graduali ristrutturazioni. La nostra nuova stagione vuole avviarsi verso il futuro, rispettando le aspettative di un pubblico più tradizionale, ma al tempo stesso andando incontro ai desideri degli spettatori più giovani e desiderosi di novità». Quando parla del suo lavoro al Teatro Stabile di Catania, la direttrice Laura Sicignano trasmette autorevolezza e determinazione. La prima è sottolineata dall’accortezza nel non fare passi falsi tracciando comunque un solco d’innovazione, la seconda nell’impegno ad andare ben oltre l’organizzazione di una stagione da lei stessa definita di transizione. Incontrata a Catania, la regista, ci ha parlato della sua idea di Teatro e delle “Connessioni Umane” che animano la sua visione culturale per il nostro territorio.

Il suo lavoro al Teatro Cargo di Genova è stato incentrato sul coinvolgimento delle periferie, creando di fatto nuovi spettatori. Si tratta di un’esperienza replicabile a Catania? In che modo è possibile coinvolgere nuovi pubblici a teatro?
«La nostra è una nazione frammentata con identità fortissime, per cui i modelli che si sono attuati in una città non sempre si possono riprodurre in un’altra con le stesse modalità. A questo si deve aggiungere che lo scenario teatrale mondiale è cambiato. Si parla sempre più spesso di pubblici, al plurale, cui proporre vari e differenziati cartelloni. Per quanto riguarda il coinvolgimento, è necessario creare nuovi prodotti partendo dal basso, cioè dall’incontro quasi individuale col pubblico. Bisogna andare a pescare uno per uno gli spettatori e coinvolgerli nel processo creativo».

«Il teatro non è mai un gioco fine a se stesso, ma da sempre qualcosa di profondamente radicato nella Polis, che ci aiuta a pensare, riflettere e capire noi stessi»

In che modo, esattamente?
«Il modo più divertente per avvicinarsi al teatro è farlo. Per cui l’attivazione di laboratori rivolti a varie fasce d’età potrebbe essere un buon inizio. Dopodiché lo step successivo dev’essere l’elaborazione da parte degli spettatori di una coscienza critica, che in questo momento storico rischia di perdersi. È fondamentale che il pubblico non sia un fruitore passivo alla ricerca di sollecitazioni spicciole, ma che sappia invece valutare la qualità di uno spettacolo. Anche perché questa capacità critica solitamente ha un riflesso nell’essere cittadini pensanti. Il teatro non è mai un gioco fine a se stesso, ma da sempre qualcosa di profondamente radicato nella Polis, che ci aiuta a pensare, riflettere e capire noi stessi. Perché questo succeda, tuttavia, è necessaria una salute gestionale e da questo punto di vista il Teatro Stabile di Catania ha avuto bisogno di un lavoro di ristrutturazione importante».

In questo senso, fin dal suo arrivo a Catania, lei si è presentata come una figura dirigenziale tout court e non come un “semplice” direttore artistico. Come sta affrontando gli aspetti gestionali?
«Il commissariamento del Teatro Stabile di Catania è stato gestito da un consiglio d’amministrazione autorevole, che ha rimesso in sesto la macchina affinché potesse ripartire. Proprio per questo, i miei primi mesi a Catania sono stati dedicati in maniera esclusiva alla gestione. Il nostro obiettivo è far acquisire nuova fiducia nel Teatro ai nostri spettatori, ma anche coinvolgere la città in genere e l’imprenditoria privata. Quest’ultima deve a sua volta acquisire nuova fiducia in quello che facciamo, e non vedere la sponsorizzazione come una forma di beneficienza, bensì come un’opportunità di prestigio, per far parlare di sé, comunicare il proprio messaggio al territorio e regalare cultura ai propri dipendenti».

La strada, quindi, è quella di un’iniziativa che faccia sistema?
«Il Teatro Stabile è espressione della comunità cittadina e, in quanto tale, deve connettersi con tutti i soggetti della città: privati, pubblici, propulsori di economia, di pensieri e cultura. Ciò che vogliamo fare è intrecciare relazioni con eccellenze, come ad esempio la Scuola Superiore di Catania e il Fai. È un lavoro certosino per allargare sempre più questa rete di connessioni buone e creative utili per la città. Altro punto nodale è il coinvolgimento dei giovani, in modo che diventino parte attiva di questo processo».

«In Italia ci sono molte scuole di teatro, farne una pallida fotocopia sarebbe una scelta perdente. Penseremo invece qualcosa di diverso nella forma, che non abbia alternative»

A proposito di giovani, che programmi ha per la Scuola di recitazione del TSC?
«Spero di riuscire a trovare dei finanziamenti per rilanciarla, perché purtroppo una Scuola non produce reddito. La chiave, in ogni caso, sarà quella di un approccio del tutto nuovo. In Italia ci sono molte scuole di teatro, alcune delle quali vantano storie lunghissime e qualità straordinarie, farne una pallida fotocopia sarebbe una scelta perdente. Penseremo invece qualcosa di diverso nella forma, che non abbia alternative».

La nuova stagione del Teatro Stabile di Catania si aprirà facendo “Scintille”. Vuol parlarci di questo suo lavoro?
«Si tratta di un mio testo che ha avuto un debutto importante al Festival di Borgio Verezzi, una tournée importante e contestualmente una produzione in Francia, dove è andato in scena con un altro cast. Credo sia uno dei miei lavori più rappresentativi in quanto racchiude molte delle cose che mi stanno a cuore: la Storia, il ruolo degli eroi minori, le donne. L’interprete è Laura Curino, che sarà protagonista di un monologo corale. È la storia di un incendio scoppiato nei primi del ‘900, per ragioni non chiare, in una fabbrica di camicette a New York dove lavoravano immigrate perlopiù italiane e dell’Europa dell’Est. Lo spettacolo racconta la storia dal punto di vista di una madre e delle sue figlie italiane partite per gli Stati Uniti alla ricerca del sogno americano. Il pubblico si affeziona subito alla psicologia di questi personaggi, vi s’identifica e poi entra, attraverso la piccola porta della vicenda individuale, nella grande Storia. È un processo interessante, che parte da un percorso emotivo per poi portare a una rielaborazione intellettuale e critica. Sarà il mio modo di presentarmi alla città».

 

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