Nelle parole dello scrittore di Comiso il fascino e il paradosso di tutta una terra e dei suoi abitanti. Tra vitalismo e pessimismo, tra illusione di felicità e paura della morte, un ritratto profondo dell’essenza siciliana che ci porta ad essere un’isola nell’Isola

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]O[/dropcap]gni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce». Era il 1985 e così nel saggio L’isola plurale, contenuto nella raccolta Cere perse, Gesualdo Bufalino tratteggiava con un effetto di potente fascinazione la natura del siciliano e della sua terra. Da acuto osservatore e profondo conoscitore della realtà isolana, però, il comisano era ben consapevole che l’essenza siciliana racchiudeva un insieme di sfumature ben più ampio. È, in fondo, la meraviglia e la condanna dell’appartenenza a questo luogo, il paradosso di chi per qualche istante sembra avere il mondo sul palmo della mano e l’attimo dopo, deluso per essere stato vinto dal destino, si chiude nella sua diffidenza.

Nell’immaginario comune, infatti, l’appartenenza ad un territorio circondato dal mare viene istintivamente associata ad una presunta omogeneità di usi e costumi, di pensieri e di intenzioni: nessuno, o quasi, immagina il siciliano come un’isola dentro l’Isola. In quanto tale, egli è naturalmente portato ad essere una contraddizione vivente, un concentrato di personalità indecifrabili perfino per se stesso. E’ così che si spiega il passaggio, per usare le parole di Bufalino, dall’essere «babbi, cioè miti» a sentirsi «sperti, cioè furbi», dalla pigrizia alla frenesia, dalla voglia di fuggire da questi sentimenti così bizzarri alla necessità di tornare nell’intimità delle nostre abitudini. Indecifrabile per se stesso, si diceva: e non è un caso, sottolinea Bufalino, che il siciliano si sforzi di comprendere la sua terra, perché solo così può sperare di giungere alla soluzione di quel secolare mistero che è la sua condizione.

L’abitante della Sicilia, a ben vedere, è anche il riflesso di un paesaggio variopinto e selvaggio, che va dal candido bianco delle saline al nero della cenere, dal verde delle piante al rosso infuocato della lava che spesso le intrappola solidificandosi. Figlio di una tale geografia, il siciliano possiede nel suo patrimonio genetico anche una naturale tendenza al vitalismo, a godere degli eventi piacevoli della vita. E’ da questa speranza che la felicità si prolunghi in eterno che nasce un’altra caratteristica topica del siciliano, vale a dire l’incapacità di accettare la morte. Vi siete mai chiesti perché, specie nelle realtà paesane più ancorate al passato, il rito funebre sia così pieno di parole e gesti eclatanti, disperati? E’ un modo per esorcizzare lo spettro della morte, percepita come un’ingiustizia inconcepibile, una punizione per un delitto non commesso. Perché la morte, per il siciliano, è il promemoria che, accanto alla volontà di felicità, esiste un altro compagno scomodo: un cupo pessimismo.

Che conclusioni trarre da un simile quadro? Che il siciliano è un mosaico, che si percepisce come unitario nel suo insieme ma che, ad uno sguardo più ravvicinato, risulta composto da mille e più frammenti. Ed è, in definitiva, questa divisione interna a renderlo immensamente ricco agli occhi degli altri e sofferente quando fa i conti con se stesso. Ed è per questo, allo stesso tempo, che noi siciliani sappiamo ritrovarci in qualsiasi parte del mondo: ci sentiamo, ci percepiamo, così diversi eppure così uguali. Perché, se è vero, come è stato detto, che ogni siciliano è un’isola dentro un’Isola, allora sarà altrettanto vero quanto dice Bufalino: «Non è tutto, vi sono altre Sicilie, non finirò mai di contarle». Il fascino di questa terra e di chi la abita sta proprio qui: prendere o lasciare.

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