Lo scrittore siracusano, figura di spicco dell’editoria nazionale della prima metà del ‘900 e impegnato antifascista, nelle pagine di “Conversazione in Sicilia” si configura come il cantore del mito della nostra isola, spesso rifiutata e abbandonata eppure eternamente presente nella memoria e nei ricordi dei suoi abitanti, specialmente di quelli distanti che si sforzano di riassaporarla anche solo per un momento

Un richiamo, irresistibile per quanto lontano, sconvolge l’esistenza di Silvestro Ferrauto, che torna nella sua Sicilia, dopo anni passati al nord Italia per cercare di sbarcare il lunario, per consolare la madre da poco tradita e lasciata dal marito. Prende le mosse da qui la vicenda narrata da Elio Vittorini in “Conversazione in Sicilia”, probabilmente il suo romanzo più conosciuto al grande pubblico edito nel 1941, in pieno regime fascista. E non poteva essere altrimenti, considerando quanto fosse veemente la critica che il siracusano muoveva all’assetto politico nazionale di allora e la sua militanza presso il Partito Comunista. Sebbene la critica al totalitarismo mussoliniano trovi spazio nella sua opera, un altro è il tema che emerge con una forza quasi onirica dalle pagine vittoriniane: la Sicilia come luogo del ritorno, della riscoperta identitaria.

Una riscoperta che, spesso, risulta essere casuale: è un evento imprevisto, infatti, che suscita un tale desiderio in Silvestro, che la terra natia aveva deciso di abbandonare in seguito agli stenti di una misera infanzia e che credeva di aver definitivamente fatto i conti col suo difficile passato. Ma non appena si accomoda sul treno, non appena questo comincia a muoversi avvicinandosi sempre di più ai luoghi familiari della memoria, ecco che un’altra, misteriosa dimensione sembra riaffacciarsi nell’animo del nostro protagonista, concretizzandosi all’arrivo nell’isola tramite l’incontro con la madre. Un’ondata di ricordi proveniente dalle strade percorse inconsciamente – tant’è che Silvestro giungerà alla casa della madre ricordando a memoria il sentiero – o dai dialoghi con gli abitanti del paese si squaderna di fronte ai suoi occhi, in un corto circuito dove passato e presente mostrano confini sfumati, dove l’infanzia si ripresenta per fare visita e sovrapporsi all’età adulta.

La magia che cattura Silvestro è la stessa che si impossessa di ogni siciliano separato, strappato dalla sua culla natale, che nonostante le sofferenze patite fin dalla tenera età non può fare a meno di reimmergersi nelle stradine, nei vicoli, negli sguardi amici che gli sono appartenuti quasi sentimentalmente in un tempo più o meno remoto. Proprio come un pesce che per troppo tempo sta lontano dall’acqua, suo habitat naturale, ha bisogno di riassaporare le sue radici anche a costo di imbattersi in qualche predatore del mare aperto, così il siciliano denota la necessità, fisica e morale, di rivedersi nella sua condizione originale: che sarà anche stata sofferente, ma in qualche modo in simbiosi col resto del mondo. Così Vittorini ritrae questa Sicilia quasi mitica, incorrotta, una Sicilia che, agli occhi di Silvestro e di tutti noi suoi simili, sembra rimanere eternamente vergine, non soggetta allo scorrere del tempo.

Parafrasando il Vate, Gabriele D’Annunzio, potremmo dire che quest’isola, storicamente avvinta dalla morsa delle difficoltà, continua ad essere, per chi l’ha tastata, assaporata, per chi l’ha scelta come compagna di vita o l’ha vissuta e abbandonata, la favola bella che ieri ci illuse, oggi ci illuse.

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