Ghetto di Varsavia, 1943. Le SS, a suon di fucili puntati sulla folla, caricano sui camion destinati ai lager le vittime innocenti. Dalla calca, un bimbo viene fuori a mani alzate e tremanti, pronto ad essere ucciso prima di una insperata salvezza. La foto, realizzata da un soldato tedesco, cattura quel drammatico momento e lo consegna all’eternità della memoria

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]I[/dropcap]l bambino della foto sono io». A parlare è Tsvi Nussbaum che vive in America e da poco ha compiuto 82 anni. La foto è una delle più famose che esistano e lascia senza parole. Nel 2000 i lettori del Corriere della Sera l’hanno scelta, insieme a quella dell’uomo sulla Luna, come la più significativa del Novecento.

Un bambino con le braccia alzate, minacciato da un nazista che gli punta contro il mitra, un berretto troppo largo sulla testa, le gambe nude e i calzettoni tirati fino alle ginocchia. Il contesto è il ghetto di Varsavia durante la rivolta e la successiva liquidazione avvenute nell’aprile 1943.

L’autore è un fotografo delle SS che seguiva le operazioni condotte da Jürgen Stroop, il generale che ha comandato la repressione della rivolta e la distruzione del ghetto. L’immagine è la quattordicesima di un album di 54 fotografie fatte scattare da Stroop per essere inviate al suo diretto superiore Walter Krüger e da questi a Himmler, accompagnato da un dettagliato rapporto, a documentazione del compito svolto. «I tedeschi – ha dichiarato dopo decenni di silenzio Tsvi Nussbaum – chiamavano la gente per caricarla sui camion davanti all’ hotel Polsky. Avevano una lista, ma il mio nome non era su quella lista… I miei genitori erano già stati ammazzati e io non sapevo che cosa fare… È allora che un tedesco ha gridato: “Alza le mani”, e io le ho alzate. Un altro tedesco ha detto: “Un bambino da solo, tanto varrebbe fucilarlo subito”. In quell’istante hanno scattato quella foto». Un fucile puntato, attimi lunghi e terribili, lui aveva solo sette anni. In quel momento suo zio, Shalom, esce di corsa dalle file della calca e urla: «Fermo, quello è mio figlio!». Tsvi e lo zio verranno portati nel lager di Bergen Belsen. Sarà liberato dagli americani alla fine della guerra.

L’unica prova che Tsvi ha per dimostrare che il protagonista della foto è lui è la fototessera che gli fecero dopo la liberazione, prima di mandarlo dal Belgio nella futura terra d’Israele: la somiglianza è impressionante. Tsvi dice: «Sì, sono io quel bambino, anche se non potrò mai provarlo, anche se quasi non me la sento più di ripeterlo, anche se non è nemmeno importante che sia io».

Tsvi, che ammette di non aver perdonato e di non aver dimenticato, adesso è in pensione. Ha lavorato come otorinolaringoiatra negli Stati Uniti dal 1953. Ha una moglie americana, Beverly. Quattro figlie grandi, due nipotini, una lunga vita dall’ apparenza serena.

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