Il giovane tenore calatino sarà uno dei protagonisti della “Fedora” di Umberto Giordano, in scena dal 17 al 24 marzo al Teatro Massimo Bellini di Catania. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il lungo e articolato legame con la musica

«È energia allo stato puro», penso fra me e me, intanto che dall’ingresso degli artisti ci aggiriamo con passo spedito per i corridoi del Teatro Massimo Bellini di Catania. Abbiamo solo mezz’ora a disposizione prima che inizino le prove, quindi saliamo rapidamente le scale per accomodarci in uno dei palchi. La vista è straordinaria: l’ampia platea e il palcoscenico, in fermento per il prossimo debutto di “Fedora”, che andrà in scena dal 17 al 24 marzo, sembrano lì solamente per noi. Inizia così la chiacchierata con il tenore Riccardo Palazzo, classe 1985, mentre in sottofondo il pianista esegue l’ouverture dell’opera di Giordano.

Quando è iniziata la sua passione per il canto?

«Da piccolino facevo parte del coro della Chiesa, anche se credo che ci sia sempre stata in me questa predisposizione; d’altra parte sono cresciuto in mezzo alla musica. La svolta però è arrivata al liceo, in quegli anni ero un vero rockettaro, anche se spesso venivo in teatro a vedere l’opera. La prima in assoluto fu “Don Giovanni”, seduto in galleria, ero emozionatissimo, anche perché a Caltagirone, dove sono cresciuto, non c’è una realtà così stabile come quella del Bellini. Ne rimasi affascinato, ma l’idea di diventare tenore non mi balenava minimamente in testa sennonché in una delle tante serate rock in giro per i pub venne a sentirmi un’amica, il soprano Daniela Pedi, che insistette molto affinché iniziassi a studiare lirica. Così a vent’anni andai a lezione dal baritono Giuseppe Garra, con il quale rimasi per un anno e mezzo, poi da Carmelo Corrado Caruso, Donatella Debolini e infine del basso Dario Russo, che avevo conosciuto qualche anno prima in occasione di una masterclass con il mezzosoprano Elisabetta Fiorillo».

La sua prima volta su un palcoscenico?

«È stata una “Norma” con la regia di Enrico Castiglione. A quel tempo facevo parte del Coro Lirico Siciliano, anche se già avevo il desiderio di cantare come solista e devo dire che il Maestro del Coro, Francesco Costa, mi diede spesso questa possibilità. Fu così che interpretai Goro nella “Madama Butterfly” al Castello di Lombardia a Enna, qualche mese dopo il Teatro Massimo Bellini indisse un’audizione su ruolo proprio per quel personaggio che vinsi. Da qui è iniziato tutto; poi è stata la volta de “La rondine” a Milano, de “La forza del destino” a Pisa, de “La vedova allegra” a Bari, del “Trovatore” a Malta».

Eppure oltre al repertorio di Bellini, Puccini e Verdi in questi anni non ha disdegnato la musica contemporanea.

«È vero, durante l’adolescenza avevo scritto una silloge di poesie. Un giorno Joe Schittino, con cui condividevo una casa a Catania, la trovò e la lesse. Decise così di scrivere dei Lieder per voce e pianoforte dal titolo “Visioni”. Da questo progetto nacque anche un lavoro discografico per la Bam Music, con la partecipazione della pianista Graziella Concas, esperta di musica contemporanea da camera».

A quali compositori si sente maggiormente legato?

«Adoro Bellini, nella sua musica vedo un tempio greco perfetto soprattutto nella scrittura vocale. Mi piacerebbe però che in Italia si riscoprisse anche il repertorio russo, a cui mi sento molto vicino. Mi definisco, infatti, un siculo-slavofilo. Sono sempre stato attratto dalla letteratura russa: Tolstoj, Dostoevskij, Puskin, una pulsione per questo mondo che si estende anche alla musica. Quello che mi colpisce di questi autori è l’intensità. Quando ascolto una composizione di Tchaikovsky, di Korsakov sento che dentro c’è la chiave della vita, così come in molti autori austro-tedeschi: Gustav Mahler, Richard Strauss, i quali racchiudono nella musica tutte le sfaccettature dell’uomo, dalla gioia al dolore. Una loro sinfonia crea in sala una bolla inspiegabile che solo chi è presente può avvertire. Sono talmente travolgenti, intime che parlano direttamente a chi le ascolta, raccontando le contraddizioni della vita».

È stato diretto da Federico Tiezzi, un artista d’avanguardia, cosa ne pensa delle regie liriche innovative? In tal senso, che impronta sta dando Salvo Piro a “Fedora”?

«È facile cadere nel ridicolo se una rivisitazione non è fatta in maniera intelligente; non dimentichiamo che l’obiettivo dell’opera è far riflettere lo spettatore. Salvo ha scelto per “Fedora” un allestimento scenico tradizionale, anche se sta facendo un’operazione molto interessante di meta-teatro: entreremo in scena come se fossimo ad una prova e non appena inizierà la musica vestiremo i panni dei personaggi».

La prima vedrà sul podio il Maestro Daniel Oren, che oltre ad aver diretto orchestre come l’Accademia di Santa Cecilia, la Filarmonica d’Israele, i Berliner Philharmoniker ha lavorato in alcuni fra i teatri più prestigiosi al mondo.

«Sono onoratissimo, lavorare con il Maestro Oren non capita di certo tutti i giorni. So che è molto esigente per cui dovremo il massimo».

Quali panni vestirà nello spettacolo?

«“Fedora” è uno spettacolo polifonico dove ogni voce ha la sua importanza, io interpreterò due personaggi totalmente differenti fra loro: nel primo atto sarò Sergio, uno staffiere russo mentre nel secondo, il barone Ruvel. La prima è una figura severa, rigida mentre l’altro é un dandy francese dedito ai piaceri della vita, che sta sempre dietro ad Olga, un’attrice bellissima e provocante, tanto che fra i due si creerà un forte gioco erotico».

Com’è la giornata tipo di Riccardo Palazzo?

«Quando sono in una produzione faccio la vita dell’atleta: vado a letto presto, evito tutti i cibi che possano causare reflusso e per non compromettere la resa vocale cerco di mantenere una buona concentrazione psico-fisica. In più vado dal pianista e nel caso di ruoli più complessi dalla mia insegnante di canto, per studiarli e costruirli insieme».

I teatri siciliani ultimamente hanno una precaria stabilità economica, cosa pensa a riguardo?

«Oggi purtroppo i teatri che godono di buona salute sono davvero pochissimi: La Scala, il San Carlo, il Massimo, la Fenice, la maggior parte però è gravata da debiti. Forse in queste circostanze bisognerebbe investire maggiormente negli artisti locali».

Quale ruolo le ha dato maggiori soddisfazioni e quale vorrebbe debuttare al più presto?

«Dal punto di vista vocale sicuramente Alfredo; ma sono molto legato a Goro che ricorderò sempre con estrema tenerezza, anche se a livello personale non fu un debutto facile per via di alcune questioni private molto delicate. In futuro mi piacerebbe interpretare Edgardo nella “Lucia di Lammermoor” e Lansky nell’”Eugene Onegin”, mentre fra i secondi ruoli ambisco ai Ministri di Turandot».

Cosa non può mancare nel suo camerino?

«Lo spartito e la Bibbia. Sono molto credente penso che quando si cerca Dio con costanza e fede lui risponda. Spesso prima di una rappresentazione prego e per ringraziarlo del dono che mi ha fatto ogni recita la dedico a lui».

 

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