Il pianista milanese si esibirà sul palcoscenico del Teatro Metropolitan di Catania domenica 4 novembre. Insieme a lui, per presentare il suo ultimo disco “Que Bom”,
Jorge Helder al contrabbasso, Jurim Moreira alla batteria e ad Armando Marçal e Thiago da Serrinha alle percussioni.

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]C[/dropcap]redo che il Brasile sia un po’ responsabile della mia fame per tutte le musiche del mondo». A dieci anni dalla pubblicazione del celebrato album “Carioca”, in cui reinterpretava a suo modo classici come “Samba e amor” e “Tico tico no fubà”, Stefano Bollani ci riporta tra le strade di Rio con un nuovo progetto, stavolta incentrato su composizioni inedite. “Que Bom” è il titolo del disco recentemente pubblicato dal pianista milanese, che sarà presentato dal vivo domenica 4 (ore 21:00) sul palcoscenico del Teatro Metropolitan di Catania insieme alla band formata da Jorge Helder al contrabbasso, Jurim Moreira alla batteria e ad Armando Marçal e Thiago da Serrinha alle percussioni.

Se guardiamo alla storia del jazz, fin dai tempi di Nick La Rocca, ogni volta che un musicista italiano ha varcato l’oceano ha lasciato qualcosa e ha preso qualcosa in cambio. Tu cosa hai preso dal Brasile e cosa vi hai lasciato?
«Cosa ho lasciato è pochissimo. In compenso ho rubato un sacco. I brasiliani vivono di sincretismo artistico, mangiano le culture altrui e le reinventano. Il rock brasiliano, ad esempio, è una cosa che non somiglia a nient’altro. La musica brasileira è fatta da persone che magari ascoltavano Hendrix e i Beatles ma poi li facevano diventare qualcos’altro. Ho attinto da quest’attitudine, che poi è la stessa dei primi jazzisti, i quali si sono trovati a maneggiare una musica che veniva un po’ dagli africani, un poi dai polacchi, un po’ dagli italiani. Questo nuovo disco nasce dalla voglia di tornare a Rio per farmi circondare dalle percussioni – perché il pianoforte fa parte della loro stessa tribù – e dal desiderio di avere ospiti una serie di amici. Con uno di essi, Hamilton De Holanda, suono spesso, mentre è stata la prima volta che ho inciso con João Bosco, Jacques Morelenbaum e Caetano Veloso».

Vivi la musica come un lavoro?
«No, anzi sono molto contento di non lavorare e non capisco perché la gente continui a riempirsi la bocca di questa parola come se fosse la cosa più importante. Nella vita la cosa più importante è la sopravvivenza, che è possibile anche curando il terreno e mangiando ciò che si coltiva. Vedere il lavoro come “fare qualcosa obbligati da un padrone per ottenere dei soldi” è un’idea che ho sempre cercato di evitare».

Negli ultimi anni il jazz si suona sempre più nei teatri e sempre meno nei club. A cosa è dovuto questo cambiamento? Credi sia possibile che questa musica torni ad essere “popular”?
«Si tratta di una mutazione avvenuta un po’ ovunque, della quale è difficile prevedere l’esito. In generale, se pensiamo alla storia del mondo, il concerto dal vivo è una cosa che si fa da pochissimi anni, ma la musica esiste da sempre. Si può suonare per un matrimonio, un funerale, come omaggio agli spiriti oppure agli dei. Noi tuttavia ci dimentichiamo spesso di questa dimensione sociale e pensiamo soltanto ai dischi e alla musica dal vivo dove si paga il biglietto. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di cose relativamente recenti, e che in quanto tali potrebbero sparire».

Cosa ascolta Stefano Bollani? E come valuti la musica che viene prodotta oggi? Stiamo tornando alla Muzak o c’è qualcosa di buono, a patto di saperla cercare?
«Ascolto tantissima musica del passato, quella dei miei ispiratori. Uno dei vantaggi di YouTube e del web in generale è che ha annullato le differenze spazio temporali, per cui tutti con un semplice clic possono vedere un video del ’63 o ascoltare un disco del ’52 e tutto sembra della stessa epoca. Questa è una cosa positiva perché ci ricorda che la musica è una cosa universale. Io ascolto musica del passato, ma che mi parla del presente, ciò che vivo. Non distinguo molto tra il nuovo disco di Kamasi Washington e uno di Charles Mingus».

Che impatto ha tutto questo sui giovani e sulla loro scoperta della musica?
«I giovani hanno dinnanzi a loro un enorme calderone in cui si può trovare di tutto, a patto di saper pescare. A fare questo, però, non t’insegna nessuno: c’è chi si è innamorato della musica perché a otto anni ha sentito Gershwin, c’è chi lo ha fatto perché a quindici ha sentito Hendrix o i Coldplay. Però è una chiave da cui vai per assonanza: ti piacciono i Beatles? Prova ad ascoltare gli Stones. Poi per ramificazioni disegnerai la tua mappa di piaceri musicali».

In questo contesto, qual è il ruolo dell’insegnamento della musica a scuola? E in che modo si può educare all’ascolto?
«È difficile costringere la gente ad amare la musica. Ciò che si può fare è fornire degli spunti, facendo ascoltare ai giovani quelli che consideriamo dei capolavori per stimolare le loro reazioni. La cosa più importante da fare, invece, è coinvolgere in attività che mettono in gioco tutto il tuo corpo, non solo la testa. Suonare, cantare, ballare, sono modi per fare arrivare la musica dritta al cuore».


N.B. Questo articolo, originariamente pubblicato il 17 luglio 2018 in occasione dei concerti di Milo e Ragusa, è stato aggiornato il 2 novembre 2018 occasione del nuovo appuntamento a Catania

 

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