Distese di pascoli verdeggianti e fonti d’acqua cristalline, mandrie addomesticate di capre e pecore e raffinati pastori intenti a cantare il loro amore per la natura: è questa la Sicilia che emerge attraverso gli occhi e la scrittura di Teocrito, poeta siracusano vissuto tra il IV e il III sec. a.C e autore dei celebri Idilli in cui si glorifica la bellezza della campagna in tutte le sue forme. Accusato spesso di praticare una letteratura fuori dalla realtà, dove i pastori piuttosto che lamentarsi della fatica e della calura si dilettano in gare canore, lo scrittore siceliota può essere considerato, invece, un vero e proprio antenato del sentimento della sicilitudine che poi invaderà per secoli i suoi successori. Nel giudicare l’opera di Teocrito, infatti, non bisogna misurare il grado di veridicità di ciò che ci viene presentato, ma il modo in cui le scene vengono narrate, per cogliere tra le loro pieghe l’interiorità insicura e tormentata di uno scrittore che, con le sue parole, prova disperatamente a recuperare un tempo che rischia di scivolargli tra le dita.

È soave il sussurrare di quel pino/ che stormisce, capraio, alla sorgente/ma è soave anche il tuo canto alle canne. Così esordisce, all’inizio dell’opera, il pastore Tirsi – dietro cui, naturalmente, si cela lo stesso Teocrito – elogiando il paesaggio siciliano nel dialogo col suo interlocutore. Un senso di disperata ricerca di immedesimazione sembra animare questi pastori, tanto vicini alle campagne che calcano ogni giorno eppure tanto lontani da sentire l’esigenza di un rapporto ancora più intimo con essa. Il secolare cruccio di ogni siciliano innamorato della propria isola pare farsi strada nella poetica di Teocrito: prevale l’attaccamento verso una terra capace di produrre frutti meravigliosi o la paura che dietro questa patina apparentemente serena si possa nascondere la delusione di qualcosa destinato a finire? I tempi naturali della campagna possono tenere il passo dei tempi del cuore, costantemente rivolto verso qualcosa che colmi la misura del suo desiderio? Dietro l’illusoria spensieratezza dei pastori teocritei, infatti, emerge già, con l’antica metafora dell’agricoltura e della pastorizia, un preoccupato senso di caducità, di sofferenza per una storia prepotente che vuole fagocitare la semplicità della vita appartata con l’ossessione del progresso. Con una lungimiranza impressionante, insomma, Teocrito percepisce l’importanza di un tema che, poi, diverrà la bandiera di scrittori come Verga o Sciascia: lottare per proteggere la propria identità di siciliani quando tutto rema contro per annullarla.

Altro che letteratura artificiosa, dunque: Teocrito, al contrario, è stato il primo dei siciliani a sentirsi schiacciato dal peso del tempo, portatore di novità ed incertezza. E forse, in fondo, il punto è proprio questo: che in Sicilia, da sempre, abbiamo paura dell’avvicendarsi dei giorni, delle stagioni, delle epoche. Il nuovo, ai nostri occhi, è sempre minaccioso, perché non facciamo mai in tempo ad abituarci allo stato delle cose presenti che già il pensiero del futuro ci opprime. Proprio come i pastori che vedevano progressivamente ridursi lo spazio dedicato alle campagne a vantaggio di città sempre più vaste e caotiche, come i Malavoglia che dalla piccola Trezza sentivano il fiato sul collo di una Catania fantasmatica, così, ancora oggi, il siciliano guarda con diffidenza al cambiamento perché, storicamente, non he mai tratto giovamento. E proprio come i pastori, sospesi tra l’esigenza di sentirsi parte di ciò che li ha generati e il dubbio che il destino li abbia giudicati colpevoli di esilio dalla propria terra, non possiamo fare altro che guardare la nostra isola e chiederci per quanto ancora resterà così bella e martoriata. Chiederci quanto possa essere nostra e quanto possa esserci sottratta.

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