Piegata, distrutta, conquistata: sono aggettivi che, spesso, sono stati associati alla nostra isola, che dalle sue ceneri è sempre rinata. Ma se la prossima volta tutto ciò non accadesse? È la paura dei suoi abitanti, che per questo la vivono o la desiderano in maniera così viscerale: perché nel deserto della sorte avversa, l’oasi potrebbe essere solo un’illusione

C’è una contraddizione, tra le tante che caratterizzano la Sicilia, che difficilmente può trovare una spiegazione soddisfacente, ed è la seguente: i suoi abitanti sono figli di una storia millenaria, che ha visto alternarsi grandi popoli e grandi uomini, una storia così importante da risultare più o meno conosciuta a chiunque sia nato e cresciuto nei confini della Trinacria. Eppure, nonostante questo marchio di longevità, nonostante questa assicurazione di rilevanza permanente, i siciliani non possono fare a meno di crucciarsi amaramente a causa di una vera e propria ossessione che sembra incatenare le loro menti, sia che continuino a vivere in questa terra sia che l’abbiano abbandonata per le più svariate ragioni. Ma di quale ossessione si tratta? Del timore della caducità. Proprio i siciliani, più di chiunque eredi materiali e culturali di virtù in cui elemento occidentale ed orientale sono compresenti, sono continuamente afflitti dalla sensazione che tutto ciò che conoscono possa dissolversi davanti ai loro increduli occhi.

Probabilmente nessuno meglio di Vincenzo Consolo – scrittore originario di Sant’Agata di Militello nel messinese presto emigrato in direzione Milano – ha saputo meglio sintetizzare questo peculiare sentimento. All’interno, infatti, di una delle sue raccolte di racconti, Le pietre di Pantalica del 1988, si legge: «Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca». La Sicilia è un miraggio, che ti riempie l’anima quando la ammiri e ti fa disperare quando scompare; è l’illusione di benessere suprema e la pugnalata profonda di un addio. E non è un caso che, ultimamente, stia destando clamore il rilevamento di un progressivo scivolamento dell’Etna verso il mare, ultimo di una serie di paure che vanno ricondotte proprio al tema del miraggio. Del resto, come biasimarci? Ne abbiamo viste di tutti i colori, tra eruzioni, terremoti, inondazioni, invasioni, imposizioni, ribellioni, liberazioni. La Sicilia si è sempre rialzata, è vero: ma si ha sempre il sentore, che fa rima con terrore, che ogni volta possa essere l’ultima.

Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo

Questo è il motivo che, nell’isola, rende possibile il senso di fratellanza e di mutua comprensione: schiacciati come siamo da limiti geografici e storico-sociali, siamo altrettanto naturalmente disposti l’uno verso l’altro perché sappiamo leggere fuori di noi la storia personale che sta anche dentro di noi. Il desiderio di restare o di tornare in Sicilia, di goderla e conoscerla centimetro per centimetro, come si evince dalle parole di Consolo, è una questione di sicurezza, di fretta: è accertarsi che non le sia accaduto niente, che sia ancora lì ad aspettarci, tra la lava e la sabbia.

Riferendosi all’amata Aspasia, nel ciclo a lei dedicato, Giacomo Leopardi la definiva “pensiero dominante”. Prendendo in prestito le parole del poeta di Recanati, potremmo attribuire questa definizione alla Sicilia, agognata dai suoi abitanti come si agogna l’acqua nel deserto. E, in un certo senso, il siciliano è abituato a vagare nel deserto: quello della sorte contraria, delle prove di ogni giorno, della lontananza. E c’è un solo modo per uscire indenni dal deserto: rifocillarsi nell’oasi/Sicilia, appunto. Sperando che non scompaia prima.

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