A 35 anni dall’uccisione del giornalista Pippo Fava, due eventi – uno tenutosi presso il Teatro Verga e l’altro alla libreria Prampolini – hanno ricordato a tutti noi l’importanza dello spirito critico e del combattere ogni giorno per ciò che è giusto, per non vanificare con una mancanza di senso di responsabilità quanto fatto da chi ci ha preceduti

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]L[/dropcap]’antimafia è un problema di coscienza e responsabilità, non una carta d’identità da esibire a convenienza» afferma Don Ciotti, fondatore di “Libera”, presente al dibattito “Antimafia 35 anni dopo: dire, fare o sembrare” tenutosi al teatro Verga in occasione della consegna del premio “Giuseppe Fava” al giornalista Giovanni Maria Bellu (all’evento erano presenti anche Claudio Fava, il p.m. Armando Spataro e il giornalista Mario Barresi in qualità di moderatore). «Nessuno può essere perfetto – continua l’attivista – ma tutti dobbiamo essere puliti. Oggi l’etichetta dell’antimafia non vale più nulla perché è stata contaminata da casi come quello di Montante, ex delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per mafia. Porre sullo stesso piano bene e male tuttavia è un delitto e non bisogna fare generalizzazioni che mettano a rischio anche l’antimafia sana. È giusto accettare le critiche costruttive, ma bisogna difendersi legalmente dalle accuse generiche e controbattere le calunnie».

TUTTI POSSONO COMBATTERE LA MAFIA. A queste parole fa eco Spataro, che afferma: «Ogni tipo di comunicazione enfatica che sfoci nella generalizzazione rischia di offendere gli onesti: dire che tutta la politica è corrotta gioverebbe soltanto alla mafia. D’altra parte non si può neppure esaltare se stessi come unici eroi dell’antimafia, errore in cui cadono molti politici e magistrati e altre figure di spicco. In questo modo infatti si rischia di far credere alla gente che la lotta alla mafia può essere condotta solo da un’élite, mentre tutti devono offrire il proprio contributo, che si tratti di cittadini o immigrati, senza alcuna barriera che li divida». È evidente in quest’ultima affermazione l’allusione alle odierne questioni relative all’accoglienza dei migranti.

SPIRITO CRITICO E MEDIAZIONE. Generalizzazioni e falsi eroismi sono spesso frutto di una cattiva informazione: «Il giornalista – afferma Bellu – ha delle responsabilità: deve restituire la verità sostanziale dei fatti chiarendo il proprio punto di vista e chiedendosi cosa sappia o meno il lettore su un dato argomento. Il vero giornalista non è quello assunto da una testata, così come il vero medico non è quello assunto in una clinica privata senza aver mai studiato. Oggi il comparto della mediazione è in crisi – continua il premiato – e il governo sembra approfittarne: senza la figura del mediatore, infatti, i politici possono divulgare direttamente le proprie affermazioni senza dare il tempo ai destinatari di riflettervi sopra. Si è creata un’egemonia della paura sulla cultura a cui nessuno, per motivi di convenienza, osa opporsi».

IL CORAGGIO DI PORSI DOMANDE SCOMODE. Vittime di questo sistema di potere e controllo sono verità e libertà. A questo proposito afferma Claudio Fava: «Bisogna avere spirito critico, porre domande che mettano in dubbio anche verità ritenute fondate, correndo il rischio di apparire nemici della massa. Il rigore giuridico di ogni inchiesta può richiedere una revisione di casi archiviati frettolosamente con un solo accusato senza complici. Si pensi per esempio al “Sistema Montante”: Montante è solo la punta di un iceberg alla cui base si trovano molti collaboratori».

DAL RICORDO ALL’AZIONE. «In ogni caso giudiziario non ci sono solo vittime e carnefici: ci sono soprattutto i complici. Nel più clamoroso depistaggio della storia, ossia il processo Borsellino, sono coinvolte molte persone e questo ha evitato l’emergere di scomode realtà per ben ventisei anni». Con tali parole si era già espresso Claudio Fava alla libreria Prampolini in occasione della presentazione della relazione “La verità nascosta” insieme al giornalista Mattia Gangi e a Bruno Di Marco e Agatino Pappalardo, consulenti della Commissione Antimafia regionale. «Seguire ventisei anni di iter processuali sulla strage di via D’Amelio – afferma Di Marco sottolineando il plurale che indica gli innumerevoli processi condotti senza una vera conclusione – non è facile: il depistaggio comincia dal movente e da chi vi è dietro. La causa è stata grossolanamente individuata nella vendetta in seguito alla conclusione del “maxiprocesso” nel 1992 e l’accusa era ricaduta su un unico capro espiatorio, il pentito Vincenzo Scarantino, un “pupo vestito”. Fin da subito alcuni dubitarono che un uomo di poco conto come quest’ultimo potesse essere esecutore di una strage, ma per molti era comodo archiviare velocemente il caso». A queste parole fa eco Pappalardo: «È come se si fosse creato un fronte comune tra giustizia e investigazione per non smentire le false testimonianze di Scarantino almeno fino alla confessione di un altro pentito, Spatuzza, nel 2008. Ancora oggi resta un vuoto di verità su chi abbia condotto il depistaggio, nel tribunale della storia è labile il confine tra colpa, complicità e sola distrazione». «La verità su Borsellino – afferma con delusione e pacata rabbia Fava – era ed è scomoda per molti: i ventisei anni di processi inconclusi sono un’umiliazione, una colpa più morale che penale della giustizia. Ora non è più tempo di commemorare, ma di agire: i vivi non devono solo aggrapparsi alle ombre dei morti, ma assumersi le proprie responsabilità».

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