Dev’esserci stato, in un punto imprecisato della storia, un momento in cui uno strano incantesimo ha deciso di prendere vita. In cui due arti, due discipline pressoché agli antipodi, hanno trovato un modo inusuale per iniziare a convivere. Per sostenersi ed arricchirsi l’un l’altra senza annullarsi. Perché, altrimenti, non si spiegherebbe la frequenza con cui medicina e letteratura – con particolare predilezione per la poesia – hanno incrociato i loro cammini nel corso dei secoli. Come sia stato possibile che da questo bislacco connubio abbiano preso le mosse giganti del calibro di Arthur Conan Doyle, Anton Čechov o Carlo Levi. O, forse, semplicemente, sarebbe stato assurdo il loro non incontro. Perché, nella sistematicità con cui il medico guarda al paziente, si riflette quella con cui il letterato guarda al mondo. Razionalità e sentimento, riflessione e impulso: due anime che possono vivere solo una in funzione dell’altra. Non è un caso, d’altra parte, che anche tra le fila degli scrittori isolani questa curiosa dinamica si sia verificata a più riprese. Pensiamo al vate Giovanni Meli, a Giuseppe Pitrè o, per rimanere più ancorati alla contemporaneità, a Giuseppe Bonaviri: tutti medici investiti dal sacro fuoco della scrittura. Tuttavia, a questo illustre elenco manca un nome certamente meno in voga nei circuiti della grande critica letteraria, ma non per questo meno meritevole di essere menzionato. Si tratta di Vincenzo Navarro, coltissimo intellettuale nativo di Ribera, nel 1800, passato alla storia non soltanto per il pregio dei suoi versi, ma anche per gli effetti dirompenti e avanguardistici che questi ebbero sulla società del suo tempo. Sarebbe riduttivo, infatti, elogiarlo semplicemente come uomo di cultura: Navarro, piuttosto, è stato un eroe a cui bisognerebbe restituire la dovuta fama.

Nel corso della sua vita, del resto, Navarro ebbe sempre da combattere. Fin da quando, appena adolescente, costretto più volte ad allontanarsi dall’amata Ribera, si rese conto che le costrittive, arretrate, bigotte pratiche di insegnamento dei precettori privati non rispondevano alla sua sterminata curiosità. Sentiva di essere un uomo di scienza, un uomo votato a fare la differenza per gli altri. E dal 1823 ebbe modo di dimostrarlo pienamente: in parallelo alla sua carriera letteraria che lo vedrà districarsi tra teatro, poemi dal sapore epicheggiante e saggistica, iniziò a praticare l’attività medica con risultati strabilianti. Visto ben presto alla stregua di un taumaturgo, da ogni parte dell’isola si faceva a gara per assicurarsi le sue prestazioni. Fu durante una di queste, sulla strada di ritorno a Ribera nella quale era stato richiamato a gestire l’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre, che Navarrò trovò l’amore della sua vita nelle fattezze di una paziente piuttosto speciale, salvata da un grave male: la giovane nobile Vincenza Amodei. Era il 1833: l’anno delle nozze e del sospirato rientro nel suo paese natale. Ancora non sapeva, il nostro tormentato conterraneo, che quello sarebbe stato l’ultimo squarcio di serenità. Appena quattro anni dopo, una terribile ondata di colera si abbatté sulla Sicilia: la popolazione venne decimata e anche la primogenita di Navarro perse tragicamente la vita. Con la propria consorte, per sfuggire anch’egli ad una sorte altrimenti certa, il medico-poeta fu costretto a riparare a Sambuca: non sarebbe mai più tornato a Ribera.

Ma non bastò, questa ulteriore batosta, a fiaccare il suo spirito. La sua battaglia per salvare Ribera, anzi, acquisì ancora più slancio. I suoi versi si tramutarono in strali, in appelli appassionati, in coraggiose proposte di futuro. A più riprese, infatti, propose alle autorità cittadine di rinunciare alla primaria, e quasi esclusiva, fonte di reddito della comunità, vale a dire le risaie. Aveva intuito che fossero proprio gli appezzamenti di terra umidi e stagnanti a favorire il proliferare del colera (nonché della malaria). «Se si togliessero, sì com’ è sacro dovere, le risaie, – scriveva nel 1848 – Ribera in pochi anni si farebbe assai bella, grande e ricca perché nel suo grande e ferace territorio sono tutti gli elementi perch’ ella divenga città fiorente e popolosa». Ipotizzò di riconvertire la produzione agricola verso prodotti come il vino, le arance e le fragole. E i suoi sforzi senza posa ebbero, infine, successo: all’indomani dell’Unità d’Italia, Ribera fu bonificata da ogni risaia. E proprio come Navarro aveva prospettato, nel giro di qualche anno tornò fiorente grazie ai propri vigneti e ai propri frutteti. Eccellenze che ancora oggi contraddistinguono il paese agrigentino. Eccellenze che devono il loro fiorire ad un lungimirante uomo di scienza.

Ma i grandi eroi, si sa, spesso non godono del lieto fine. Si battono perché siano gli altri, da quelli più vicini a quelli più lontani e senza volto, ad ottenerlo. Navarro non fece eccezione: nel 1867, il colera che tanto aveva osteggiato, e che aveva ripreso a marciare pericolosamente in lungo e in largo per tutta l’isola, lo scovò a Sambuca. A nulla valsero gli avvertimenti di amici e di parenti, che lo invitavano a fuggire verso nuove destinazioni. L’istinto del medico, e del poeta, ebbe il sopravvento: decise di restare in paese, di accogliere e prestare le prime cure agli ammalati in casa sua. Una scelta di altissimo spessore etico e umano che gli costò la vita. Ma non l’oblio. Se è vero che nelle verdeggianti distese siciliane, nello spirito di tutti coloro che si prodigano senza requie per il prossimo, nella floridezza dei numerosissimi intellettuali che gli succedettero in quella fortunatissima fetta di Sicilia, il suo ricordo continua ad attraversare la nostra quotidianità.

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