Innamoramento, tradimento, dissimulazione, separazione, vendetta, ossessione ed egoismo, sembrano essere questi gli stadi emozionali che attraversano i quattro protagonisti dello spettacolo “Closer”, seconda commedia del drammaturgo inglese Patrick Marber – con la quale si è aggiudicato il premio “Evening Standard Award for Best Comedy”, il più antico riconoscimento teatrale del Regno Unito -, in scena fino a domani alla sala Futura. Alice, Dan, Anna e Larry, infatti, vivono le loro relazioni d’amore in maniera distorta tanto che in poco tempo l’equilibrio di queste due coppie salta, facendoli prima allontanare e poi riavvicinare, in modo inverso, per il solo gusto della ripicca.

UN INGRANAGGIO POCO OLIATO. Tutto ha inizio in una Londra atemporale, oggetto di salti non sempre cronologici fra Otto e Novecento. Sulle note dell’Adagio in Sol minore di Albinoni fra lo scalpiccio dei cavalli, la damigella Alice e il cavaliere Daniel si incontrano, fra loro basta un semplice scambio di sguardi per far scattare la passione, anche se le loro personalità deviate ben presto si manifesteranno trasformando quell’irruento sentimento in una parabola discendente. Alessandro Maggi, che cura la regia di questo spettacolo co-prodotto dal Teatro Stabile di Catania insieme con PianoinBilico e Geco.B Eventi, immagina un gioco ad incastri, fra epoche, in cui i personaggi si trovano a riproporre i medesimi schemi, ma quest’opera non si può definire universale e la stessa volontà di imporla come tale rappresenta una sconfitta in partenza. Ciascuno di loro si porta dietro un bagaglio personale non sempre lineare: Alice infatti è una spogliarellista avvezza all’autolesionismo, Anna un’artista depressa e remissiva, Dan uno scrittore frustrato che per vivere è costretto a scrivere necrologi e Larry, un dermatologo di successo violento e aggressivo, ma nessuno di loro è un protagonista paradigmatico. Si tratta di quattro personalità da manuale, che dissimulando la loro vera natura danno sfogo nel modo più primitivo all’istinto delle passioni, ad amori costruiti sull’impulso e sull’irrazionalità, caratterizzati da gelosia e morbosità in cui le connotazioni positive si dileguano, ma null’altro. Non c’è riscatto né perdono in questa triste commedia dove le connessioni del racconto spesso si perdono e i meccanismi della narrazione faticano a scorrere facilmente.

PRECEDENTI ILLUSTRI. Pasquale di Filippo, Alberto Fasoli, Silvia Giulia Mendola e Gilda Postiglione riescono a tenere concitato il ritmo, delineando allo stesso tempo lo spazio scenico immaginato con astuzia da Stefania Bocchia, che firma anche i costumi, ma la conseguenzialità degli eventi e di certi snodi narrativi tende spesso a percorrere binari morti facendo risultare la messa in scena vacua. Anche il finale nel quale si rivela la vera identità di Alice, momento topico in cui cadono le maschere e vince la realtà, appare come un evento slegato dal resto della storia aleggiando così fra le gelide lapidi di quel cimitero dove tutto ha avuto inizio. Sono molti i richiami visivi alla cinematografia, d’altra parte lo stesso Marber qualche anno dopo la prima messa in scena del 1997 di “Closer” venne chiamato a scrivere la sceneggiatura per l’omonima pellicola diretta da Mike Nichols, con protagonisti Natalie Portman, Jude Law, Julia Roberts e Clive Owen, come anche a certa letteratura. E qui è inevitabile un parallelismo con “Le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos e con la sprezzante visione della realtà del Divin Marchese, con i suoi personaggi antieroi affetti da sfrenato sadismo.

LA MESSA IN SCENA. Prorompente anche la componente musicale anche se usata per lo più come raccordo narrativo nel passaggio da un quadro all’altro. I pochi essenziali elementi della scenografia, composta da quattro aste trasparenti e da videoproiezioni realizzate, da Cristina Crippa e Carla Sabatucci, restituiscono una parvenza di ambientazione che viene completata a discrezione dello spettatore. Interessante l’uso dei costumi trasformabili della Bocchia che fa sempre interagire i personaggi con elementi in plexiglass, come se la loro torbidezza d’animo si potesse lavare via con la trasparenza degli oggetti. Anche il linguaggio usato nella traduzione di Marco Casazza, spietato e scabroso, con continui rimandi al sesso e alla sua fisicità, cozza con la recitazione affettata che imperversa inesorabile per un’ora e mezza.

Un’operazione teatrale che tenta di aprire in maniera piuttosto goffa al teatro contemporaneo ostacolando, per statuto registico, sia la fluidità della storia sia lo scarto temporale di un titolo che ultimamente appare forse troppo inflazionato. Non dimentichiamo che appena l’anno scorso è stato proposto dal Biondo di Palermo. Se è vero infatti che “si nasce e si sogna da soli” non va mai dimenticato che il teatro è un atto collettivo in cui protagonisti sono gli interpreti ma anche gli spettatori.

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