Il Re, il contadino e lo zufolo magico: la fantasia delle fiabe ci salva da noi stessi
In uno dei tanti racconti scritti da Luigi Capuana, la vicenda di un sovrano che decide di lasciare ogni agio per inseguire il suo sogno d’amore e di felicità ci ricorda che le fiabe, in fondo, parlano anche e soprattutto agli adulti. A quelle vite che hanno smesso di credere che le cose possano cambiare. Che si lasciano abbattere dai propri ragionamenti. E alle quali basterebbe fare semplicemente un passo indietro: e ricordarsi che la realtà non corrisponde sempre a ciò che vediamo. Ma a ciò che vogliamo che accada
Arriva un momento, nella vita di ogni adulto, in cui è necessario iniziare a credere nelle fiabe. Ad appostarsi lì, esattamente come i bambini, sulla soglia di una filastrocca, di un motivetto ritmato, di uno slancio di fantasia capace di sovvertire la realtà. Gli archetipi di carta chiedono di assumere consistenza, i tempi indefiniti di abitare un istante preciso. La consuetudine si lascia dietro ogni ormeggio e accetta di farsi travolgere dall’innocenza del racconto, dell’affabulazione. Fino a privarsi del superfluo, puntando costantemente all’essenziale. Sì, quello che la volpe, rivolgendosi al piccolo principe, ritiene invisibile agli occhi. Ogni essere umano, nella fiaba, non vede che il proprio riflesso. Cerca di afferrarlo, come Narciso, ma le sue mani si impigliano nel vuoto. Allora lascia che sia l’intreccio, il c’era una volta, il lontano lontano, ad avvolgerlo. Che siano sovrani e maghi, pulzelle e giocolieri a guidarlo nel suo viaggio. A svelargli che, in fondo, ciò che si vede non è, sempre, ciò che è. Che l’apparenza è il peggior nemico della felicità. E ogni volta che crediamo di sapere siamo, in realtà, nel punto più lontano dalla possibilità di sfiorare la verità. Ma basta un tocco, uno schiocco delle dita, un soffio sullo zufolo per prendere una scorciatoia. Proprio come fa il miope Re di una delle tante fiabe di Luigi Capuana, che crede di poter realizzare ogni suo desiderio attraverso la meschinità e l’imposizione indiscriminata della sua autorità. Fino a quando un evento inaspettato non sconvolge radicalmente le sue convinzioni. Fino a quando la meraviglia e l’amore non gli suggeriscono che il sacrificio e la dedizione sono le chiavi per dare alle cose un volto inedito. Per ottenere una ricchezza tale da fare impallidire qualsiasi tesoro reale.
In Tì, tìriti, tì, infatti, il Re è ossessionato dal misterioso campo in possesso di un umile contadino. La sua natura brulla, sassosa e frastagliata non dovrebbe consentirgli di ottenere alcun raccolto degno di nota. Ma la sua fama, in tutto il regno, lo precede: più il terreno appare disastrato, più le sue risorse aumentano: «Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini raccoglievano venti, e lui raccoglieva cento, per lo meno. I vicini si rodevano. Una volta quel campicello non lo avrebbero accettato neanche in regalo: da che lo aveva lui, non sapevan che cosa fare per strapparglielo di mano. – Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C’è chi li pagherebbe tre volte più della stima. E lui sempre rispondeva: – Questi sassi son per me, non li cederei neppure al Re». E così aveva davvero fatto nei riguardi del suo sovrano, che a più riprese gli aveva offerto di rilevare quel campo miracoloso. Aveva persino architettato di mandare i suoi scagnozzi, ogni notte, per metterlo a ferro e fuoco e costringere il contadino ad abbandonarlo. Eppure, ad ogni alba, quel terreno si ricostituiva più rigoglioso di prima. «Col re non si scherzava. I Ministri cominciarono dal grattarsi il capo e, pensa e ripensa, uno di essi propose di andare, la notte, ad appostarsi dietro il pagliaio di quel maledetto contadino e star lì fino all’alba. Chi sa? Qualcosa avrebbero visto». Un avvenimento inconcepibile aveva scosso la perversa curiosità di quegli uomini. Tanto che il Re, in prima persona, aveva deciso di appostarsi. «E andò la notte dopo, accompagnato dai Ministri. Ed ecco il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventa una reggia; e tì, tìriti, tì, compare una ragazza e si mette a ballare. A quella vista il Re ammattì: -Oh, che bellezza! Dovrà esser mia! Dovrà esser mia!». Quella visione lo aveva sconvolto. Niente più importava al Re, se non di tramutare in realtà quello sprazzo di fantasia. Aveva persino convocato il contadino a palazzo, per chiedere la mano di quella fantasmatica fanciulla. «Chi vuole la mia figliola – aveva risposto il contadino – dee star sette anni alla pioggia e al sole; e se sette anni alla pioggia e al sole non sta, fosse chi fosse, non l’otterrà».
Il Re aveva accettato di buon grado. Aveva abbandonato tutto: agi, servitori, titoli. E si era mezzo a zappare con il contadino, in balìa degli agenti atmosferici che progressivamente lo sfiguravano. Ma lo scopo, il desiderio, quello no, di sfigurarsi non ne voleva sapere. Al limitare dei sette anni, il contadino aveva ripreso a suonare lo zufolo. E alla vista della ragazza il Re si era lasciato andare ad un moto del cuore. Era corso verso di lei, e le aveva gridato che presto sarebbe diventata Regina. Ma così facendo, come dei novelli Orfeo ed Euridice, lei era scomparsa. Perché, come il contadino si era premurato di ricordare: «Chi tocca stronca, chi parla falla!». Aveva dovuto ricominciare tutto, il Re. Altri sei anni. Poi di nuovo il medesimo errore. Ma perché demordere? Ed altri sette anni gli erano scivolati sul groppone. Fino a che la magia non aveva lasciato posto ai corpi: «Questa volta, però, stette bene in guardia, e ai sette anni fissati ebbe finalmente la ragazza, più bella della luna e del sole. Non gli parea neppur vero! Intanto che cosa era accaduto? Era accaduto che i suoi Ministri e il popolo, ritenendolo per matto, si erano dimenticati di lui e avevano dato, da parecchi anni, la corona reale a un suo parente». Nessuno lo aveva più riconosciuto, rattrappito e ingobbito dalla fatica di quegli anni spesi tra la terra. Era tornato così al pagliaio e vi aveva trovato una reggia: il contadino non vi era più. Al suo posto, il mago Sabino, pronto a riportarlo all’età della giovinezza. E con in mano lo zufolo, pronto a suonare un’ultima volta: «Il Re si affaccia, si mette a suonare, tì, tìriti, tì, ed ecco un esercito armato di tutto punto, fitto come la nebbia, su pei colli e per la pianura. Intimata la guerra, mentre i soldati combattevano, lui, in cima a un poggio, sonava tì, tìriti, tì, senza cessare finché la battaglia non fu vinta. Tornò a palazzo reale vittorioso e trionfante, perdonò tutti, e all’occasione dei suoi sponsali diè un mese di feste per tutto il regno».
Il Re aveva imparato. Imparato che, il più delle volte, i primi avversari nella nostra rincorsa alla felicità siamo noi stessi. Noi, con la nostra pretesa di avere tutto e subito. Con i nostri ragionamenti, che sviliscono ogni possibilità di sorpresa. Con le nostre parole inopportune, che frustrano i sogni nostri e quelli degli altri. Ma ecco che la fiaba, come la vita, sa offrire una seconda possibilità. Quella del perdono. E allora per coglierla non serve chissà quale impresa. Serve credere che le cose si trasformano. Che basta, al momento giusto, dire basta col passato. E intonare un dolce tì, tìriti, tì.
(Immagine in copertina realizzata con Image Bing Creator)
