Il sottile confine tra dolore e speranza: Helle Busacca e i misteri della poesia
Nata a San Piero Patti, fu una delle voci poetiche più singolari del Novecento. La sua fu una vita complessa, funestata dal suicidio dell’amatissimo fratello Aldo, ingegnere di fama internazionale. Da quell’istante, la sua scrittura andò continuamente in cerca di risposte. Con la fragilità di chi pretende di scovare un senso e la forza di chi, nonostante tutto, non smette di lottare
Ciò che rimane di una perdita, talvolta, è soltanto la poesia. Il fantasma di un ricordo che sussurra dei suoi giorni da vagabondo, una inspiegabile connessione con antichi misteri, circostanze enormi, soverchianti, che pretendono di assumere la forma di un verso, l’aspetto segreto e delicato di una scala di parole. Che sia un’accusa, un appello, una richiesta di conforto, una domanda senza fine e senza risposta, la poesia è l’essenza stessa del dire, del risalire dallo sprofondo del silenzio. È sostituirsi a chi non ha avuto la forza di immaginarla, di invocarla. Ma è anche una furia, un fendente che squarcia il velo dell’ipocrisia, che svela destini amari con il coraggio di chi non ha nulla da perdere. A volte è compianto, altre volte surrogato della vita. Illusione plastica di ciò che non ha più una consistenza, se non nel passato. Dolore che si radica, ma che prima o poi riesce a fiorire. Proprio a questo sottosuolo di contrasti, di bellezza contaminata, rimanda la poetica di Helle Busacca, singolare protagonista del Novecento letterario originaria di San Piero Patti, nel messinese, dove nacque nel 1915. Un grido fiero, il suo, esploso in giro per l’Italia dopo essersi trasferita con la famiglia. Un grido che affascinò Montale, Luzi, Sereni e che spiazzò l’opinione pubblica con il suo modernismo frammentario, con la sua anima arrembante, senza compromessi. Quell’anima che arrembava nonostante la prematura scomparsa della madre, nonostante l’abbandono del padre, nonostante quella persistente sensazione di ingiustizia che ne accompagnava i passi. Nonostante il dramma più significativo: il suicidio, nel 1965, dell’amatissimo fratello.
Uno sgomento troppo intenso, troppo repentino. Perché Aldo, ingegnere dal prestigio internazionale, non aveva certo i connotati della disperazione. Ma qualcosa, silente, sotterraneo, scorreva nella sua vita. L’indignazione per un sistema accademico non specchiato, ingrato, la nevrosi per delle aspettative e delle pretese irrealizzabili, per la deriva di una società incatenata al profitto, che persegue i suoi interessi ad ogni costo, dimenticandosi del merito e dell’equità. Fu quasi un’epifania, per Helle. Una svolta fatale, che le fece apparire dinanzi agli occhi, una volta e per sempre, le verità strazianti di un mondo, fondamentalmente, incomprensibile. Persino per la scienza che aveva cullato i sogni del fratello, che aveva promesso mirabilie ma che, in definitiva, aveva fallito nel trovare una cura per i cuori spezzati. Fu in quegli anni di profonda riflessione, di pugni al muro e di pagine strappate, che nacque il progetto poetico I quanti del suicidio, poi pubblicato nel 1972. Un’invettiva contro la vita stessa, contro il suo perverso gusto per la privazione, ma anche l’affermazione di sé, della sua fragile ed irriducibile resistenza umana, della sua strenua, titanica lotta contro il fluire del tempo. Contro il riverbero di un’apparente maledizione da cui non sa divincolarsi, ma che ogni volta, come una novella eroina da tragedia classica, la spinge sempre più all’azione. A ricercare il filo, l’atomo comune che ci affratella nelle nostre peripezie.
«C’è chi nasce un mattino
Helle Busacca, “C’è chi nasce un mattino”
tirato a lucido, un banco
di nubi che indietreggia di là dal limite
dell’orizzonte a incurvare
i grattacieli e i campanili
di Milano in una bolla di quarzo
il viale sotto casa con le foglie rosse
e d’oro a felpargli il passo in un sontuoso
tappeto indiano,
mattini
tersi di novembre che pare
aprile e la rosa sul terrazzo
illusa mette le foglioline
nuove,
“crede che sia
primavera”, ti dicevo.
E c’è
come te e me, chi è nato
con la nebbia che nessun sole potrà forare
cupa da cataclisma
giornata conchiusa in un giro
inesorabile di ventiquattro
ore, la nebbia precipita
in pioggia melma le strade
le gore che straripano la tramontana
che rapprende al tuo brancolare
un lastrico di ghiaccio su cui stramazzi,
e quando è l’ora ventiquattresima
non ti riguarda più se entro un attimo
il cosmo scatterà in una nuova alba».
Perché forse, in fondo, la poesia non può spiegare. Ma solo constatare: quello che non c’è più e quello che non c’è mai stato. Può crucciarsi, ma non annullarsi. Può restare al tappeto, ma mai tentare di rialzarsi. «La cosa che non accadde è l’unica che conti sotto le volte del razionale-irrazionale. Non credere ch’io cada in contraddizione: rimpianto è un errore di calcolo, non cresce la spiga il papavero, né il grappolo; è altro il suo dono».
(Immagine in copertina: Mads Schmidt Rasmussen | Unsplash)
