Perché un amore dovrebbe finire? De Roberto e un cruccio senza pace
Accade, senza segnali. A volte, squarcia in maniera fulminea una meravigliosa illusione. Altre volte, si consuma col tempo, con una lenta agonia. Il sentimento finisce, senza lasciarti spiegazioni. Una realtà a cui lo scrittore isolano fece fatica a piegarsi. Dedicò un intero saggio alla questione: per indagare, scavare. Dentro sé stesso e dentro tutti noi. Per trovare risposte che forse, in fondo, non esistono
Graffiato, disperato, quasi digrignato. Incredulo, riverso su un pianoforte da accarezzare. Cantava così Riccardo Cocciante, nel 1974, in uno dei suoi brani più iconici: «E in fondo pensi, ci sarà un motivo. E cerchi a tutti i costi una ragione. Eppure non c’è mai una ragione, perché un amore debba finire». C’è qualcosa di profondamente scandaloso, inconcepibile, nel considerare tale verità. Che i sentimenti possano dissiparsi, soccombere alle circostanze, patire l’abbandono, commiserarsi nel chiuso di una stanza. Possono assistere alle avventure più sfrenate, al materializzarsi dei sogni più arditi. E poi, come folgore, precipitare sulla superficie della realtà. Disgregarsi come rocce in particelle di sabbia. Un attimo, un solo attimo: e la loro forma finisce per smarginarsi. Implorano il tempo di essere clemente, quasi lo sospendono nell’impeto del loro esplodere. E poi si smarriscono, nel turbine di un addio. Nell’istante in cui le labbra si schiudono per annunciare un “mai più”. Stranieri a vicenda, stranieri a sé stessi. Custodi di ricordi fantasmatici che riaffiorano proprio quando ci si crede affrancati dal loro potere. È una materia indecifrabile, l’amore. E più ancora lo è la sua cessazione. Il brusco, fragoroso tonfo di tutte le sue speranze. Il suo riverbero non dà pace. Come mai l’ha data a Federico De Roberto, che per tutta la vita si è sforzato, positivisticamente e umanamente, di coglierne le ragioni, le sfumature più impercettibili, le misteriose catene di causa-effetto. Si è ostinato. Ha indagato, ha scavato nelle profondità di sé stesso. Ha fatto appello ai segreti più inconfessabili del cuore, all’universale spartito degli amanti. Ha condannato, compatito, preso le difese. Si è calato tra i delusi, si è mimetizzato tra gli entusiasti. Ha ripercorso sentieri dolorosi, e poi con grazia, con maestria, ha guardato ad orizzonti lontani. Là dove il dolore si mescola alla purezza. Il risultato è stato un saggio. Che forse, in fondo, somiglia più ad una pagina di diario. Alla confessione di un uomo inerme, incapace di rinnegare quell’afflato, nonostante tutto. Nasce così La morte dell’amore (1892).
E nasce da un dialogo. Da un bisogno di confronto, e di conforto. Da due coscienze immaginarie, Franz, Fritz e Ludwig, che vorrebbero mettersi lì, analizzare minuziosamente ogni casistica, enunciare assiomi e princìpi, ricavare formule ed eccezioni. Che invece si ritrovano davanti al silenzio del mare. A cullare teneri interrogativi. A mostrare la fragilità di chi non si capacita di come la bellezza possa sfiorire, andare sprecata. A constatare che «l’amore muore in tanti modi quante sono le anime che lo nutrono». E ciò che più di ogni altra cosa rende insopportabile questo delinearsi degli eventi, questa sentenza inappellabile, è la sua rapidità. Il suo verificarsi senza apparenti segnali. Perché sì, l’amore può finire. Ma è sempre troppo tardi quando l’evidenza si para dinanzi agli occhi. A volte perché calpesta l’ingenuità di un’illusione: «Non sai tu dunque di che cosa è capace la vita?… – chiede Fritz rivolgendosi a Franz -. Ti duole che una potenza fatale distrugga il sogno d’una gioia senza fine! Ma tu non pensi che, in ragione di questa stessa fatalità, il tuo spirito finisce per acquetarsi! Sta dunque a sentire. V’è una creatura che t’ha detto: “Sono tua, per sempre”. Chi è che distrugge il senso di queste parole? Ella stessa!… Ella t’ha detto che t’ama, e un bel giorno ti dice: “Non t’amo più!”. Bada ancora: al tempo dell’amore felice, ella ti ripeteva, malinconicamente: “Sarai tu quello che mi lascerà!”. Tu allora protestavi, giuravi, non sapevi né potevi darle una prova del suo inganno. Ella s’irrigidisce, ti respinge, evita il tuo sguardo; allora una luce si fa nel tuo spirito: ella ama un altro. E la terra ti manca sotto i piedi. Quella creatura, quell’anima, quel corpo, sono d’un altro! È possibile?». E la risposta piomba. Con tutto il suo peso. Con tutta la sua inusitata ostilità. «Passano giorni vuoti, monotoni, eterni. Tu ritrovi le sue lettere, i suoi ritratti; ed hai paura di toccarli, di mutarli di posto. Diventi superstizioso. Ad ogni squillo di campanello, pensi: “È lei che mi scrive, che si pente, che mi chiama…”. Nulla! Tutto è finito! Tu non la vedrai più, mai più, mai più! Allora, a queste parole che tu ripeti incessantemente, disperatamente, la tua ragione vacilla. Perché mai più? Che cosa può vietare che due esseri viventi si rivedano ancora? Quali insuperabili barriere, quali distese di mare e di terre li posson dividere?».
Ma ecco la medaglia rovesciarsi. L’impeto dilatarsi fino ad avvolgersi su sé stesso. L’amore può scoppiare, ma può anche consumarsi. Restare al sole, arrugginirsi, perdere smalto. Può naufragare, andare lentamente verso una solitaria deriva. Da un giorno all’altro, ogni sguardo diventa abitudine. Ogni lampo di passione un riflesso sbiadito: «La fine d’amore più triste – sostiene Ludwig -, più tormentosa, più tragica, è un’altra. È la fine lenta, lunga e quotidiana, l’esaurimento continuo prodotto dall’azione del tempo, dal fatale svanire d’ogni cosa umana. Il giorno che voi avete confessato l’amor vostro, che ne avete ottenuto il ricambio, vi siete detto: “È per sempre! per sempre!”. Voi credete a questa parola! pensate che se qualcosa d’indipendente dal vostro volere non accadrà, l’amor vostro durerà eternamente. Ed è, dapprima, il tripudio più puro fra le proteste più pazze. Un sentimento di meraviglia occupa il vostro spirito: pensate alla creatura che vedeste un giorno da lontano; alla quale parlaste col rispetto più timido, per la quale sentiste nascere il desiderio più disperato – e questa creatura adesso è vostra, vi appartiene tutta! Voi quasi nol credete; se la vedete, talvolta passar da lontano, il dubbio rinasce nel vostro spirito». Fino a che tutto, come un miraggio, svanisce al contatto. «Un bel giorno, una sua parola, l’accento col quale ella la pronunzia, vi aprono gli occhi; ella ha scoperto i vostri difetti secreti, le vostre debolezze intime, quel che c’è in voi di manchevole, di men bello. Allora il vostro amor proprio s’impunta. E vi chiudete in un offeso riserbo, o vi vendicate dicendole apertamente i suoi torti. Adesso ciascun di voi giudica l’altro, senza riguardi, per quel che vale. Un istinto d’avversione si sveglia dentro di voi; ma i legami che vi stringono a quell’essere sono tanto forti che non si spezzano. E sapete a che cosa somiglia allora la vostra situazione? Rassomiglia a quella di due forzati avvinti da una stessa catena, ciascuno dei quali è costretto a non fare un passo che l’altro non faccia… Quando voi pensate all’illusione dei primi giorni, vi chiedete: “Come mai s’è dissipata?”. E non sapete rispondere; il disinganno s’è venuto operando lentamente, inavvertitamente. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo in cui nacque l’amore; per questo, la rimettete nella stessa luce in cui prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei…».
E forse non esiste davvero risposta al grande interrogativo. Gli amori finiscono e portano via con sé tutto il bene e tutto il male. Lasciano appena un aroma di dolcezza, anche nei cuori più avvelenati. E la certezza di essere esistiti. In fondo, Franz, Fritz e Ludwig si struggono, si immalinconiscono. Ma la loro miseria, il loro scoramento, è il frutto di una passata felicità. In fondo, se a loro si fosse affiancato un quarto amico, non avrebbe risolto la contesa chiedendosi se la forma più triste d’amore è quella che muore prima ancora di nascere? Quella che non accade, perché prigioniera, sovrastata dalla paura e dal pudore?
(In copertina: Edward Munch, Amore e dolore, 1895)
