Eva, Verga, il Moulin Rouge: il destino incrociato di amore e malattia
Una ballerina dalle movenze suadenti e dalla grazia soprannaturale. Uno squattrinato artista innamorato di lei. Una disperata gelosia a guastare ogni piano. Un teatro a fare da cornice. L’ombra della tubercolosi. Sembra la trama dello splendido film diretto da Buz Luhrmann. Sembra un ritratto del luogo simbolo della Belle Époque. Ma è, invece, un romanzo del nostro conterraneo. Un romanzo archetipico, che riprende la contrapposizione tra Eros e Thanatos. Forse gli innamorati sono, in senso metaforico, tutti malati gli uni degli altri? O forse ci si ammala di fronte alle illusioni che cadono giù come un sipario?
Il vibrare dei lustrini che volteggiano vorticosamente. Un motivetto incalzante, melodioso per l’anima, che vola aggraziato oltre il profilo di una grande pala rossa. Il parquet intinto di passi e di segni, di tacchi graffianti e di ardite acrobazie aree. Moulin Rouge. Un unico sibilo attraversa le labbra. Lo si pronuncia, lo si vagheggia, e già il suo riflesso ha trovato rifugio altrove. In una dimensione dove può rimanere inspiegabile, intoccabile. Vive tra i quadri, tra i racconti ammirati di un passante folgorato, nelle pellicole incastrate tra le cineprese. Fa capolino nelle tele di Toulouse-Lautrec, nelle memorie di chi quel 6 ottobre 1891 era lì, in uno degli arrondissement più controversi di Parigi, a guardarne i nastri, i sipari, le inibizioni cadere giù per la prima volta. E poi rivive, ancora e ancora, sui trapezi tra le stelle della versione cinematografica firmata da Buz Luhrmann nel 2001. Quella di Nicole Kidman e del suo rosso fiammeggiare tra labbra e capelli. È più un’icona che uno spazio fisico, il Moulin Rouge. Un incavo dell’anima dove si intrecciano storie di ogni tempo, storie di sogni trascinati e lasciati a metà, di amori infranti e cullati da un tango. Di teneri abbracci ostacolati dalla sorte dalla gelosia. Come accade a Satine, l’irresistibile e conturbante danzatrice che Christian ama sin dal primo sguardo e che vorrebbe sottrarre alla violenza del duca di Monroth. Satine, privata del primo autentico sentimento della sua vita da una tubercolosi senza appello. Ancora lì, nel Moulin Rouge, ecco rimbombare un grande archetipo: il grande binomio tra amore e malattia. Tra ciò che ferisce il corpo e ciò che lo trapassa fino allo spirito. La solitudine di chi sembra struggersi invano. E proprio lì, nella schiera di quegli archetipi – Violetta, Mimì, Silvia e Leopardi giusto dirne alcuni -giace anche un quadretto verghiano. Quello che viene fuori dal romanzo Eva (1873). Che a rileggerlo oggi, sembra proprio perfetto per entrarci, nel Moulin Rouge. Per ispirare un impressionista, un ritrattista ai bordi delle strade della Belle Époque.
Solo che qui non c’è il Can Can. Ma un luogo di balli sfrenati, in effetti, compare. È La Pergola di Firenze. Eva è la sua stella: danzatrice eterea, che svende sé stessa e a propria arte per un pubblico ignorante e bigotto. Eppure Enrico, che si lascia ammaliare ad una festa in maschera, rozzo non lo è affatto. Fa il pittore, viene dalla Sicilia e sta tentando di sbarcare il lunario, L’epifania dell’amore lo distoglie da ogni proposito. L’ossessione lo incatena. Eva gli appare come un fantasma della notte. Come un’ombra del giorno che non accenna a dissolversi: «Era bionda, delicata, alquanto pallida, di quel pallore diafano che lascia scorgere le vene sulle tempie e ai lati del mento come sfumature azzurrine; aveva gli occhi cerulei, grandi, a volte limpidi, quando non saettavano uno di quegli sguardi che riempiono le notti di acri sogni; aveva un sorriso che non si poteva definire. Non era soltanto una bella donna – certe altezze non attraggono appunto perché sono inaccessibili. L’ammirazione che ella destava assumeva la forma di un desiderio; c’era nei suoi occhi qualche cosa come un sorriso e una promessa che faceva discendere la dea dal suo cocchio superbo. Si chiamava Eva, o almeno si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigramma. Tutti conoscevano la sua vita un po’ più in là del palcoscenico della Pergola, e forse meglio di tutte le dame del gran mondo che parlavano di lei celandosi il ventaglio. Nessuno ne sapeva più di un altro. Era l’apparizione di un astro in mezzo alla splendida società fiorentina». La fanciulla ne ricambia le attenzioni. Ma poi, strisciante come una serpe, una crepa di fa strada tra loro. La gelosia di Enrico è asfissiante: la ragazza abbandona la danza, le luci di scena. Ma poi torna indietro, alla vita sulle punte, sui piedistalli, sull’attimo fugace in cui la finzione del teatro e della performance sostituisce pienamente la realtà delle cose. La separazione abbatte il ragazzo. Che però, dentro di sé, trova la forza per divincolarsi. Torna a dipingere con costanza, ottiene la fama e la stabilità economica tanto agognata. Torna allora da Eva, convinto che il mutato scenario possa convincerla a riprovarci. Ma lei ha ormai voltato pagina: un altro occupa il suo cuore.
Il dramma si consuma, proprio dietro l’angolo. Enrico sfida il nuovo spasimante a duello: lo uccide, per poi risultarne emotivamente devastato. La tubercolosi – sì, proprio la tubercolosi – lo sfibra definitivamente. Muore solo: assistito solo dai suoi rimorsi e dalla rovina. Il Moulin Rouge si è così ribaltato: Eva, la danzatrice che si offriva agli occhi di tutti, che già nel nome portava le stigmate della condanna pubblica, si tramuta nella vittima che esclusivamente la colpa di aver voluto amare liberamente. L’uomo, Enrico, qui, divergendo da ogni tòpos, si ammala e sacrifica la sua umanità sull’altare di una pulsione, di un’illusione. Amore e malattia. Eros e Thanatos. Una volta di più congiunti.
Là dove la grazia e la raffinatezza incontrano l’irreparabile. Dove il tempo si ripete sempre uguale a sé stesso. Nel mondo del romanzo, dove l’infelicità ha sempre il volto di una saetta della sorte. Dove il destino si diverte ad imitare l’andatura dei suoi ignari compagni. Prima di gridare: fin de la danse.
(In copertina: Henri de Toulouse-Lautrec, Ballo al Moulin Rouge, 1889-1890)
