«Quando il mondo ti volta le spalle, non devi far altro che voltargli le spalle anche tu». Difficile che questa simpatica ma tutt’altro che banale sentenza non abbia riportato alla mente di molti di voi la celebre scena del capolavoro Disney Il re leone in cui Timon, rivolgendosi ad uno spaurito Simba che ha da poco assistito alla morte del padre Mufasa ed è fuggito dalle Terre del Branco su intimazione dello zio Scar, impartisce una delle sue classiche lezioni di vita e sopravvivenza al piccolo leoncino. Difficile, per di più, che questo classico espediente narrativo non vi risulti in qualche misura familiare. Quando si tratta di fare i conti con il dolore, con la perdita, con un profondo disagio interiore innescato da un traumatico evento esterno, la letteratura (e la para-letteratura in generale) è spesso ricorsa al tema dell’esilio e dell’autoesclusione dal mondo, sia in senso spaziale che metaforico. Basterebbe soltanto, per avere contezza del fenomeno, tornare indietro al Decameron di Giovanni Boccaccio, per arrivare poi a La tempesta di William Shakespeare, fino a capolavori della contemporaneità come La montagna incantata di Thomas Mann, Il dottor Živago di Boris Pasternak o l’Enrico IV di Luigi Pirandello. C’è, a ben vedere, qualcosa di catartico nel gettarsi alle spalle, più o meno momentaneamente, le preoccupazioni della vita. Nell’allontanarle a tal punto da dare sostanza all’illusione di averle definitivamente seminate. Nel soffermarsi silenziosamente sulle tappe del cammino che ci hanno condotto ad un determinato punto. Un tema, questo, su cui a lungo rifletté il nostro conterraneo Giuseppe Antonio Borgese. La cui parabola esistenziale, inesorabilmente segnata dall’espatrio impostogli per via del suo radicale antifascismo, ben si sposa con la sua attenzione letteraria per la figura, troppo spesso superficialmente liquidata in sede critica, dell’inetto. Se è vero, infatti, che il suo nome risulta pressoché inscindibile rispetto a Rubè, altrettanto significativo risulta ricordare come due anni dopo, nel 1923, vide la luce il suo secondo e ultimo romanzo, I vivi e i morti. Un titolo eloquente e immaginifico, in qualche modo evoluzione del precedente e che mirabilmente racchiude il tempo di Borgese così come il nostro.

La generazione del protagonista Eliseo Gaddi, infatti, assomiglia sinistramente alla nostra. Frammentata, sconvolta da venti di guerra, accecata da particolarismi ed egoismi, refrattaria alla cooperazione e incline a ricercare la soluzione delle proprie criticità nella chiusura in sé stessa. Esattamente la strada perseguita dal personaggio di Borgese, che si ritira in una sofferta clausura di campagna per meditare sull’inautenticità delle persone che lo circondano, sulle delusioni che lo hanno segnato, sull’opportunità di riscoprire nella solitudine il senso delle cose. Almeno fino a quando conosce la conturbante e colta Arianna, che lo introduce a delle letture di carattere filosofico. Eliseo le consuma, le divora, ma qualcosa lo lascia insoddisfatto. «Una vera resurrezione» è ciò che cerca. Nella pace apparente dello sfondo agreste, si lascia persino convincere a prendere parte a delle improbabili sedute spiritiche. Durante una di queste, tuttavia, catturato dalla suggestione del momento, avviene qualcosa di inaspettato: «Innanzi a sé, a tre, quattro passi di distanza, un’immagine stupefacente: sé medesimo. Pensò nettamente che per decidere s’egli vedesse sé stesso bisognava che quell’immagine aprisse gli occhi, e fece uno sforzo per muoversi e, traversato il piccolo spazio, schiacciare col peso della sua viva realtà l’illusione. Ma vide l’immagine muovergli incontro per aderirgli petto a petto, per trasfondersi in lui, e cadde riverso con un tonfo, trascinando nella sua caduta il piccolo mobile e il lume, che si spense». È il preludio a uno stato febbrile di quaranta giorni, costantemente in bilico tra la vita e la morte, in cui più volte l’immagine del fratello defunto Michele torna a fargli visita. Il filo sottile sul quale Eliseo ritrova la strada. La voglia di mettersi in gioco nella ricerca della felicità. Perso definitivamente sé stesso, caduto come l’ombra del suo sogno dinanzi ai propri sensi di colpa, il personaggio di Borgese rinasce, si rinnova, si ricostituisce sulla base di valori più nobili: «Io sono tornato dalla morte, e voglio vivere il tempo che mi resta con pensieri di pietà e di bellezza».

La solitudine propugnata della letteratura, perciò, può essere creativa. La separazione dal mondo, dalle sue logiche corrotte e dispotiche, è efficace solo se si traduce in tempo per sé stessi. Per conoscersi ed elevarsi alla migliore versione di cui si è capaci. Per tornare con più forza e convinzione a scalare le vette che ci sembravano insormontabili. Per vivere il tempo non come sinonimo di sottrazione, ma come qualcosa a cui possiamo aggiungere qualcosa di inedito.

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