Bryan Denton:
«Così fotografo
il cambiamento
in Medioriente»
«La Siria è il peggior conflitto che abbia mai visto in tutta la mia carriera: una guerra brutale di cui si sono quasi dimenticati persino i motivi».
[dropcap]B[/dropcap]ryan Denton è un fotografo americano di trent’anni che, da undici, fa il fotoreporter freelance dal Medio Oriente. Collabora con grandi quotidiani e riviste internazionali come New York Times, Newsweek, Wall Street Journal, Der Spiegel. Se non fosse per il fatto che siamo seduti, i suoi due metri di altezza metterebbero in soggezione, ma quando inizia a raccontare della sua esperienza di lavoro, ciò che colpisce è il tono lento e riflessivo e i suoi occhi profondi che ripercorrono con la mente ciò che ha visto e vissuto nelle zone di guerra.
Come sei diventato fotografo?
«Sono sempre stato interessato alla fotografia: mia mamma è una “graphic designer” e il suo studio era in casa. Da bambino ci andavo sempre e mi sono innamorato della camera oscura. Ho frequentato il mio primo corso a 11 anni e dopo il college sono entrato alla “New York University for Photography” perché volevo occuparmi di moda o di pubblicità. La prima lezione è stata il 26 Agosto 2001 e solo due settimane dopo c’è stato l’11 settembre: io abitavo lì vicino e ho preso la macchina fotografica».
L’11 settembre, quindi, ha cambiato la tua vita?
«Avevo solo 18 anni e devo ammettere che gli scatti erano molto brutti, ma in quel momento ho capito la mia vera strada; soprattutto ho realizzato che essere fotografo non significa semplicemente essere sul posto quando le cose succedono: dovevo studiare molto di più e avere più esperienza prima di iniziare seriamente. Nel frattempo frequentavo anche un corso di Arabo e Studi Orientali, otto anni fa mi sono trasferito a Beirut».
È stato quello il momento in cui sei diventato un fotoreporter di guerra?
«Non mi piace essere definito così perché non m’interessa il combattimento ma il cambiamento. Io sto a circa 200 metri dal fronte, perché è lì dietro che le emozioni prendono vita e vedi l’essenza dell’umanità: è nei momenti di pericolo che conosci davvero le persone che ti stanno accanto e capisci di chi puoi fidarti».
«Non mi piace essere definito reporter di guerra perché ciò che m’interessa non è il combattimento ma il cambiamento»
Pensi che le tue foto possano aiutare a prendere coscienza del cambiamento?
«Non lo faranno nel presente, se pubblicate su una copertina oggi o in una rivista la prossima settimana; però se un bambino, tra vent’anni, potrà vederle in un libro, mentre studia la storia della Libia dei primi anni duemila, forse sì. Mi piace pensare che tutti i media, se svolgono bene il proprio lavoro, possano cambiare il modo di pensare delle persone e far capire che il loro potere sta nel voto. Possono passare anni, ma un effetto c’è di sicuro».
© Bryan Denton – www.bryandenton.com
È possibile non essere empatici con ciò che si vede e si scatta?
«Io sono sempre coinvolto emotivamente. Molta gente pensa che si scelga questo lavoro per l’adrenalina e l’eccitazione: forse all’inizio, ma dopo un paio di volte, quando vedi davvero quello che succede, l’adrenalina lascia il posto alla paura».
Può la fotografia essere oggettiva?
«Le persone parlano sempre di oggettività e si presume che un dramma sia oggettivo. Io non credo. Quando faccio le foto cerco di studiare le persone: voglio capire le loro vite, i loro problemi, le guerre che stanno combattendo».
Sei stato molto tempo in Siria durante questo conflitto. Cosa ti ha colpito maggiormente?
«È una guerra brutale, la peggiore che abbia mai documentato. È terribile quello che succede lì da tre anni e non si sa quando finirà; soprattutto, nessuno combatte più per un’ideologia ma solo per rabbia e vendetta. Un’esperienza in particolare mi ha turbato: ho visto un giovane soldato del regime condannato a morte per i suoi crimini. Il comandante arabo, per cui nutrivo profondo rispetto, ha deciso che non voleva semplicemente sparargli ma voleva trarne vantaggio: la ha ingannato e fatto salire su un camion che trasportava un’enorme bomba verso un check point del governo. È stata la cosa peggiore cui ho assistito nella mia intera carriera».
© Bryan Denton – www.bryandenton.com
Recentemente hai assistito a uno sbarco di siriani qui a Siracusa. Cosa ti ha colpito?
«Quando hai conosciuto la brutalità di quel Paese, ti rendi conto che scappano dall’inferno e l’arrivo è per loro uno dei momenti più felici: sono vivi e qualcuno li sta salvando. Ho fotografato un mix di stanchezza, disperazione, felicità, paura per un futuro incerto, curiosità per il posto in cui stanno arrivando: tante emozioni, tutte nella stessa borsa».
Credi che sappiano, prima di partire, che l’Italia potrebbe diventare il loro capolinea?
«I migranti siriani sono, per lo più, intere famiglie della classe media: transitano dall’Italia con gli ultimi risparmi per poi proseguire verso Svezia e Scandinavia. Per gli italiani è difficile accoglierli ma loro non vogliono restare qui perché sanno che la vostra economia non può assorbirli. Inoltre, quando arrivano, camminano con i pugni chiusi perché non vogliono che vengano prese le loro impronte digitali come fossero criminali: cercano solo la salvezza e i governi devono capirlo, velocizzare il sistema e migliorare i programmi di integrazione. Non sono mai stato un rifugiato. Posso solo immaginare cosa significhi».
Non lo sei stato, ma vivi in Libano dal 2006. Quali sono i problemi per uno straniero in quel Paese?
«La cosa più triste è che nessun meccanismo potrà mai farmi diventare loro cittadino perché le leggi sulla cittadinanza sono incredibilmente arretrate. Sono sposato con una libanese ma non posso richiedere al governo un certificato di matrimonio, la residenza, il permesso di lavoro o la cittadinanza per i miei bambini perché le donne non hanno diritto di trasmissione. Ho investito lì il mio cuore e la mia anima, ma agli occhi della Legge sarò sempre uno straniero. Con la famiglia di mia moglie è stato diverso: loro mi hanno realmente accolto».
© Bryan Denton – www.bryandenton.com
Cosa è cambiato in Libano dalla guerra del 2006?
«È stato il primo conflitto che ho seguito da fotoreporter. Il Libano ha una grande cultura e un grande popolo ma è gestito in modo pessimo e corrotto. È circondato da un’instabilità che dura da anni e non è stata mai risolta, perché nessuno vince una guerra, tutti perdono. C’è odio e rancore».
La Primavera Araba del 2011 non aveva dato una nuova vita a quei paesi?
«L’effetto è stato quello di una sbornia: la Libia è piena di insicurezze, la Siria è al suo terzo anno di guerra civile, in molti paesi ci sono conflitti tra Sunniti e Sciiti e il Libano è in bilico tra stabilità e instabilità ogni anno».
E tu vuoi restare comunque lì?
«Certo. Mia moglie è libanese e la sua famiglia vive lì. Non è tanto il tempo o il denaro investiti, quanto il lato affettivo. La situazione potrebbe diventare davvero seria, non subito ma col tempo, e mi preoccupo per loro».
«Quello libanese è stato il primo conflitto che ho seguito da fotoreporter. Il Libano ha una grande cultura e un grande popolo ma è gestito in modo pessimo e corrotto»
Adesso, cosa farai?
«Tornerò a Beirut perché non vedo mia moglie da due settimane e ho bisogno di un paio di giorni di riposo. Andrò forse in Libia o in Algeria e probabilmente tornerò a Siracusa perché è un posto magnifico in cui stare».
Se potessi descrivere Siracusa con uno scatto?
«Vorrei poter scattare una foto che descriva le stratificazioni storiche di questo posto. Cammini dentro un grande libro a cielo aperto. Noi americani abbiamo una storia relativamente recente, se imparassimo di più dal passato, probabilmente saremmo più scaltri; anche la nostra politica è un casino: la gente pensa di più alla religione che alla storia. Sono dei creduloni».