Capuana e la trappola del sogno americano: la vera conquista è non perdere sé stessi

Si intitola “Gli americani di Ràbbato” l’opera nella quale lo scrittore isolano affronta il tema della migrazione attraverso la storia dei fratelli Lamanna, che affascinati dai racconti di altri espatriati arricchitisi scelgono di partire alla volta degli States e di lasciarsi alle spalle affetti e tradizioni. Ma la nuova vita li travolgerà, con i suoi ritmi e con la sua ossessione per il denaro. Finché un evento inatteso non insegnerà loro che, a volte, per compiere un passo in avanti bisogna avere il coraggio di tornare indietro

Non sempre il confine tra sogno e miraggio è nettamente distinguibile. Forse, a dire il vero, non lo è quasi mai. Si snoda sull’inezia di una suggestione, di presunte o provvidenziali apparizioni. Sa tracciare solchi che non conoscono ritorno, binari interrotti nel bel mezzo del nulla; e, con la medesima naturalezza, riesce a disegnare ponti verso l’ignoto, a tracciare rotte che sanno di avventura, di azzardo, di intrigo. È un ideale, quel confine. Un luogo dell’anima che sa di timore, ma anche di riscatto. Che ammalia con la sua voce suadente, che ti intrappola tra le spire del suo fascino e poi ti abbandona sul ciglio di un rimpianto. Promette futuro e consegna nostalgia. Cavalca lontani richiami ed eterni ricorsi. Somigliano a miti, ad epiche collettive, a leggende che si rinnovano di continuo, questi rifugi della memoria che rassicurano con la loro incrollabile presenza. Come se esistessero da sempre, come se nessuno li avesse mai inventati, ma solo scoperti, rinvenuti sul fondo di chissà quale abisso. Vengono favoleggiati di racconto in racconto: le porte di El Dorado, le peripezie di Re Mida, i fasti di Shambhala. Ma sono anche storie di viaggi, di persone, di minuta e industriosa, concreta realtà. Quella dei tanti siciliani salpati alla volta dell’intramontabile mito americano, della rincorsa disperata all’ascesa sociale, dell’invidia mista ad ammirazione per coloro che, inopinatamente, ce l’avevano già fatta. Un riferimento onnipresente, quello della ‘Merica: un convitato di pietra con cui generazioni di isolani hanno convissuto – e continuano a farlo – e lottato. Che li ha posti dinanzi a dilemmi di natura quasi etica: sfidare la sorte o aggrapparsi alle radici? Rinunciare a sé stessi o restare fedali alla voce del cuore? Su queste dicotomie ha riflettuto a lungo Luigi Capuana. Con quello sguardo inconfondibile, capace di cristallizzare nello spazio infinito della letteratura anche i gesti e le espressioni più smozzicate. Lo ha fatto in un’opera che solo di rado – ingiustamente – ha conquistato l’onore delle cronache, vale a dire Gli americani di Ràbbato (1912). Una vicenda di paese, nella migliore delle tradizioni siciliane, ma anche di sentimenti universali, di fragilità, di tenerezza e di autenticità.

Santi e Stefano Lamanna, in fondo, non sono che due ragazzotti in cerca di affermazione. Sono cresciuti proprio lì, a Ràbbato, prestando orecchio ai racconti e alle cantilene del nonno, ad immaginare tempi lontani, tempo che furono. Ma da qualche tempo a questa parte un’immagine si è insinuata nella loro fantasia, squarciando la martellante fatica della vita agricola: quella dell’oceano solcato dallo sbuffo di una nave. Tutti, al paese, non fanno che parlare degli Stati Uniti, delle mirabolanti ricchezze che si celano ad ogni angolo, di un mondo capovolto che appare quasi irraggiungibile. Tutti, al paese, non fanno che parlare di Carmine Liotta, detto Coda-pelata, il barbiere che ha sbarcato il lunario approdando negli States e che è tornato per ostentare il suo benessere acquisito con abiti di sartoria e pose da signorotto. Persino Menu, il più piccolo dei Lamanna, si lascia trasportare nel vortice della meraviglia. Accorrono in massa, gli abitanti di Ràbbato, e pendono dalle labbra di Coda-pelata: «Che città, caro nonno, che città!…Ogni giorno cose nuove!… E la campagna? Si va, si va con le ferrovie, e non si vede altro che praterie, qualche casa colonica, e praterie che attendono le braccia per coltivarle… Mandrie di buoi, centinaia, migliaia di buoi, mandrie di cavalli, centinaia, migliaia di cavalli che pasturano in libertà… Uno va, con un cappio e se ne prende dieci, venti, quanti gli fanno comodo…e. Vi ricordate di Liddu Rizzo? Fa il macellaio in Carrol stritte. In America le vie le chiamano “stritte” e invece sono larghe mezzo miglio, con alberi ai lati… Se lo vedeste! Vestito di bianco, con un grembiulone bianco come la neve senza una macchia… Pare un signore, dietro il banco di marmo pulito e lucido come uno specchio. Ha messo pancia. Ed è andato via di qui con pochi soldi in tasca. Viene a farsi la barba nel mio salone e la domenica se la spassa, perché la domenica tutte le botteghe, tutti i negozi sono chiusi; la legge è così. Altro modo di pensare, altro modo di fare». Da umile uomo di bottega a possessore di uno dei saloni più richiesti di New York: quella del Liotta è quasi un’epifania per i fratelli Lamanna. Santi e Stefano partono, immediatamente, veracemente, verso quello scenario quasi fiabesco. Si tramutano presto, anche loro, in uomini con il fiuto per gli affari. Che finiscono per inghiottirli, per impedire loro persino di rispondere con frequenza alle lettere che arrivano dalla Sicilia. Anche per questo Manu li raggiunge. E nemmeno lui riesce a sfuggire a quella malìa generata dall’ossessione del guadagno. Almeno finché una tragedia non li sfiora. «Lo stesso giorno Santi apprendeva da un giornale che Stefano era stato gravemente ferito in una rissa e che si trovava all’ospedale della colonia italiana tra la vita e la morte. Aveva ferito anche lui, e perciò un policeman lo guardava a vista. La rissa era avvenuta in un negozio di rigattiere al n. 30 di Mulberry Street e il giornale faceva credere che fosse nata per dissensi sorti nella divisione di danaro e di oggetti furtivi. Presso il rigattiere ne erano stati sequestrati parecchi ed egli non aveva saputo giustificare la provenienza. Santi si sentì salire vampe di rossore al viso, vedendo il nome di suo fratello mescolato con quello di coloro che il giornale chiamava vecchi arnesi di prigione. Pensò al nonno e alla mamma che forse la malignità di qualche compaesano non avrebbe tardato d’informare della disgrazia di Stefano, e gli vennero le lacrime agli occhi».

Stefano è malconcio, tuttavia in grado di cavarsela. Ma l’avventura in America, quella no, non ha futuro. Il richiamo delle stagioni di casa, di quelle strade e di quegli accenti infusi di calorosa familiarità, ha avuto la meglio. L’emozione ha trionfato sulla logica. Stefano e Menu rientrano a Ràbbato: la commovente rimpatriata a casa Lamanna sa di chiusura del cerchio, ma anche di nuovo inizio. Di un’affermazione di libertà. Che, come spesso accade, è lì, ad aspettarci. In fondo a noi stessi. Siciliani di ogni tempo: «Menu pronunziò queste parole con tal enfasi di gioia che fece ridere tutti. E continuò gesticolando. “Sapete che farò, nonno? Prenderò la patente di maestro di scuola. Me lo ha consigliato il mio maestro di quarta. Ah, se la miseria non scacciasse via i nostri paesani!… Finirà anche questa». In un anno e mezzo di vita nel fervido affaccendamento di New York quel ragazzo sembrava diventato uomo maturo. E fu un abbracciarsi, un baciarsi come se tutti si fossero inattesamente trovati insieme per la prima volta. “Su, a tavola!” gridò lo Sciancatello. Santi e Menu, rimasti indietro, si guardarono negli occhi e s’intesero. L’immagine dell’assente li turbò. “È pentito; lavorerà, tornerà un giorno anche lui!” sussurrò Santi all’orecchio di Menu, che assentì con un cenno della testa e ripeté internamente: “È pentito, lavorerà, tornerà un giorno anche lui!”. “Ah, par di sognare!» ripeteva don Paolo Lamanna. E rivolto ai due “americani” soggiungeva: “Eh? La patria… è sempre la patria!”»

(In copertina: Ph. Tyler Donaghy | Unsplash)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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