Cecilia Sala: «Nel mondo ferito dalla guerra l’odio dei giovani è più radicale di quello dei loro padri»

Nel suo ultimo libro “I figli dell’odio”, presentato al Monastero dei Benedettini in occasione di uno dei Supertalks della Scuola Superiore di Catania, la giornalista ha ripercorso non soltanto i drammatici frangenti della sua detenzione nelle carceri di Teheran, ma anche condiviso le tante storie e le tante voci delle nuove generazioni raccolte in Iran, Israele e Palestina: «Se cerchi dei pacifisti in Israele probabilmente hanno 70 anni, più raramente 18. È sorprendente vedere ragazze di 13 anni andare in giro con striscioni che si oppongono ai matrimoni misti, alla presunta perdita d’identità della nazione». Anche in Ucraina la radicalizzazione trova sempre più spazio: «Per noi è difficile immaginare cosa significhi per le persone che vivono in quei territori consegnare al nemico la propria libertà. Una vita che produce solo cicli di violenza». E sul ruolo del giornalismo dice: «Il livello di potenza e di onestà delle conversazioni che fai con le persone che vivono in contesti molto drammatici è irripetibile. Più che fonti, spesso diventano amici a cui vuoi bene. Ma spesso commettiamo l’errore di ricordarci di alcuni luoghi solo quando c’è un picco d’emergenza, dimenticando tutti i trascorsi»

«Volevo fare la giornalista da quando sono un essere senziente». Lo dice con il sorriso tra le labbra, Cecilia Sala, ma al tempo stesso con la determinazione di chi, in questi anni, ha messo a repentaglio persino la sua vita per raccontare alcune delle pagine più drammatiche e complesse del nostro tempo. Frangenti dai quali è scaturito anche il suo ultimo libro, I figli dell’odio (Mondadori, 2025), presentato all’Università di Catania in occasione di uno dei SUPERtalks! organizzati dalla Scuola Superiore di Catania nell’ambito del progetto Safi3 finanziato dal PNRR. Un reportage che esplora come la violenza, la radicalizzazione e l’odio stiano ridefinendo le nuove generazioni in tre contesti chiave dell’Asia occidentale: Israele, Palestina e Iran. 150 pagine di scrittura brillante e acuta, che si sforza di «raccontare le storie delle persone che vivono una guerra nella speranza che il giornalismo possa fare più che limitarsi al conteggio dei missili o delle centinaia di metri su cui sono avanzati i russi ogni giorno». Nella conclusione del libro, spazio anche il racconto della sua detenzione nelle carceri iraniane: «Dopo quell’esperienza riesco a capire meglio le tante storie simili che ho raccolto negli anni, per esempio dei palestinesi e degli ucraini, spesso dagli esiti più tragici». 

A margine della presentazione, abbiamo parlato con lei del libro, ma anche dei temi più caldi dell’attualità e di come il giornalismo dovrebbe porsi dinanzi a questi.

Da quali suggestioni nasce il suo ultimo libro I figli dell’odio?
«Mi sono resa conto che nei luoghi in cui viaggio per lavoro sono più interessata a quello che fanno i giovani rispetto a ciò che fanno le persone più mature. Ed è una piccola ossessione che però ha un senso, perché guardare a cosa pensano i giovani di una società aiuta a vedere dove sta andando quella comunità, e non soltanto dove già è. E in Israele, in Palestina, in Iran è stato davvero molto interessante. Vede, noi spesso lo abbiamo fatto moltissimo con le primavere arabe: raccontiamo i giovani come la parte più liberale, democratica, pura e buona di una società, ma non sempre è così. A volte i giovani sono più incattiviti rispetto alle generazioni precedenti

È sicuramente vero in Israele: la prima parte del libro, che si chiama La radicalizzazione di Israele, comincia da delle giovanissime ragazze di 13 anni che alzano uno striscione con scritto “Se tua moglie non è ebrea cacciala di casa assieme ai figli che ti ha dato”. Continuo a sorprendermi di come sia possibile che una ragazza di 13 anni nel 2025 abbia la paranoia dei matrimoni misti, della mescolanza del sangue, della perdita del carattere della nazione. Da lì comincia un discorso che poi coinvolge anche tantissimi anziani. I giovani sono all’inizio di ognuna delle tre parti del libro che accompagnano il lettore dentro un contesto ovviamente molto più complesso e più ampio.

Però per me è molto interessante che il 70% dei giovani israeliani oggi siano contro la soluzione due stati, contro la possibilità dell’autodeterminazione per i palestinesi, al contrario di quello che pensavano i loro genitori fino agli anni ‘90. La radicalizzazione di una società si vede anche dal fatto che le nuove generazioni sono più radicali di quanto non lo siano i loro nonni. Se cerchi dei pacifisti in Israele probabilmente hanno 70 anni, più raramente 18».

«Daniel Saer, con cui ho dialogato a lungo e che ho citato anche nel libro, mi disse che l’odio tra palestinesi e israeliani oggi è più forte di quanto non lo fosse 20 o 50 anni fa. Credo che l’unica soluzione, una volta terminata l’occupazione, sia una separazione per molto tempo. Solo allora si potrà pensare ad una convivenza»

Cecilia Sala

A fronte di questa consapevolezza, quale progetto di pace secondo lei è possibile costruire in Medio Oriente?
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Non ci possiamo affidare alla volontà di quei popoli di non farsi la guerra perché aspetteremo forse secoli. Non c’è alcuna speranza che gli israeliani in questi mesi smettano di occupare territori palestinesi o che i palestinesi siano pronti a convivere in tempi brevi. L’odio è profondissimo. Daniel Sear, la persona con cui parlo in quella parte del libro mi disse: “Noi 20 anni fa ci odiavamo e ci facevamo paura molto meno di quanto ci odiamo e ci facciamo paura oggi. 50 anni fa ci odiavamo e ci facevamo paura molto meno di quanto ci facessimo paura o ci odiassimo 20 anni fa.” Va tutto sempre molto peggio e le soluzioni pensate finora non funzionano. La priorità, e questo lo dice anche lui, non è la pace, la priorità è la fine dell’occupazione. Soltanto dopo la fine dell’occupazione, ma non subito dopo, non un giorno dopo, non anni dopo, forse neanche 10 anni dopo la fine dell’occupazione ci potrà essere lo spazio per una convivenza. “Quando sarà finita l’ingiustizia e avremo smaltito il rancore saremo in grado di convivere” mi disse. Ma nulla di tutto questo avverrà a breve. 

C’è una parte del libro che si chiama Il Divorzio dedicata a questo tema, dove sostengo che l’unica soluzione possibile sia appunto il divorzio, cioè una separazione per molto tempo. 

Ad oggi il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese è una finzione. Non riscuote le tasse, non amministra la sicurezza, non gestisce moneta, non controlla i confini né regola gli spostamenti delle persone o l’ingresso delle risorse. La sicurezza dei palestinesi è cancellata per proteggere la sicurezza degli israeliani con una strategia che a quanto pare non funziona neanche per la sicurezza degli israeliani».

Crede che invece in Ucraina una pace sia più vicina?
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L’unica prospettiva concreta di cui si è parlato finora è che la Russia si terrebbe ciò che ha occupato. Donald Trump, per esempio, ha già chiesto un cessate il fuoco basato sulla linea di contatto attuale, il che significa che i russi manterrebbero un pezzo di terra che hanno preso illegalmente. Quello che è importante notare è che Zelensky ha già dato il suo sì a questo compromesso. Il problema è che l’unico che non ha detto sì è Putin, che invece ha chiesto più territori di quelli che ha effettivamente conquistato, una cosa mai vista. Ha chiesto, ad esempio, l’intera regione di Zaporižžja. Per noi è difficile immaginare cosa significhi per le persone che vivono in quei territori consegnare al nemico la propria libertà, i propri averi e le proprietà. L’occupazione russa in Ucraina, infatti, funziona come l’occupazione israeliana in Cisgiordania: gli ucraini vengono espropriati delle loro case e al loro posto vengono messi a vivere dei russi trasportati chissà da dove. Una vita che produce inevitabilmente cicli di violenza».

«Il giornalismo è obiettivamente un mestiere faticoso. Ma il livello di potenza e di onestà delle conversazioni che fai con le persone che vivono in contesti difficili, e a cui poi finisci per affezionarti, è irripetibile. E allora mi rendo conto che vale tutta la pena della fatica che comporta»

Cecilia Sala

Quali sono, secondo lei, gli errori dei media occidentali nella narrazione dei conflitti, soprattutto in aree che sembrano non riguardarci da vicino?
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Penso che l’errore più grande che facciamo sia concentrarci su luoghi – che tutto sommato non sono neanche tanto lontani da noi – soltanto nel momento del picco delle emergenze. Un atteggiamento che non ci permette di capire cosa succede veramente in quei territori. Se parliamo di Afghanistan soltanto attorno ai giorni del 15 agosto 2021, quando i talebani tornano al potere, ma non abbiamo raccontato cosa è successo poco prima e ce ne scordiamo clamorosamente poco dopo, saremo sempre in affanno, sempre in ritardo e sempre incapaci di cogliere la complessità di questi luoghi. E questo vale ovviamente per la Palestina che era stata sostanzialmente dimenticata fino al 7 ottobre». 

Lei è stata in alcune delle zone più complicate del pianeta e ha raccolto storie di grande rabbia e dolore. Come affronta le difficoltà di questo mestiere?
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È un mestiere obiettivamente faticoso, ma che dà grandissime soddisfazioni. Il livello di potenza e di onestà delle conversazioni che fai con le persone che vivono in contesti molto drammatici – e che non hanno maschere perché per loro fingere o mentire non ha nessuna ragione – è irripetibile. Mi rendo conto che ci sono persone che ho frequentato soltanto per alcuni giorni o per alcune settimane, ma in condizioni talmente stressanti che si è creata una forza nel nostro legame che magari non riesco a costruire in anni delle relazioni che ho qui. Quindi gli incontri con le persone che vivono nelle aree di guerra o di crisi sono per me un grandissimo motore e sono anche un po’ dipendente da quelle persone che sono “fonti”, ma che poi diventano anche amicizie e persone che ti porti a casa e a cui vuoi bene. Penso che sia un lavoro faticoso, ma assolutamente che valga tutta tutta la fatica che comporta. Non avrei voglia e non saprei forse fare nessun altro mestiere».

(In copertina: Cecilia Sala all’Università di Catania. Foto SSC)

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Studente di lettere classiche all'università di Catania e allievo della Scuola Superiore di Catania. Collabora con la rubrica culturale della Treccani "Il Chiasmo" e gestisce il giornale universitario "InChiostro".

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