Consolo e le logiche del potere: perché non ci è concesso essere giovani?

Nel suo primo romanzo, “La ferita dell’aprile”, lo scrittore siciliano, attraverso le vicende di un paese siciliano che faticosamente si rialza dopo la guerra, riflette sul difficile rapporto tra libertà e vita adulta. Un gruppo di ragazzi, che motteggia e rifiuta i dogmatismi e le ingiustizie, si ritrova ben presto dall’altra parte. Vessato da un ipocrita senso del dovere. A vivere la vita di quei padri che mai avrebbero voluto imitare

Solcare il mare aperto con l’entusiasmo della scoperta. Spiegare le vele, per poi fendere l’acqua con un guizzo repentino. Ritrovarsi di colpo ad implorare una nuova folata di vento. Perdersi al largo, lasciandosi trascinare da nient’altro se non l’inerzia spenta delle onde. Voltarsi indietro, ai giorni del fervore, dei grandi preparativi, del molo che si allontana e che, promettendo nuovi orizzonti, sparisce progressivamente alla vista. E chiedersi, tutto a un tratto, a quale incomprensibile spinta si deve quel fuori rotta. La vita dell’uomo somiglia, di frequente, proprio a quella di un’imbarcazione. Hai l’impressione di condurla, di slalomeggiare abilmente tra le insidie del viaggio, di poter acrobaticamente inventare sentieri mai battuti. La gioventù ti innerva, ti avvolge. Ma poi sprofonda nella quiete fatale dell’età adulta, nel rigore del dovere, in un porto buio e consumato dove la carena della tua nave si confonde tristemente con quella di tutte le altre. L’ispirazione si tramuta presto in arida emulazione. L’originalità, l’istinto della ribellione nella più banale delle omologazioni. Ed è forse in questa dinamica, nell’inesorabile disperdersi di questo istinto alla trasgressione libertaria, che si cela il male sottile del nostro tempo. O, per meglio dire, di ogni tempo. Questa, almeno, è la riflessione che Vincenzo Consolo affidò a La ferita dell’aprile (1963), suo romanzo d’esordio nel quale la dicotomia tra vecchio e nuovo, tra immobilismo e rinnovamento, viene messa in scena in un paese siciliano che tenta faticosamente di rialzare la testa dopo i disastri della guerra. In cui l’ansia del domani annega in un ineffabile, pervasivo senso di repressione. Tutto, all’apparenza, si appresta a cambiare. Ma è solo, ci lascia intendere l’autore, una rapida transizione tra due vuoti speculari.

I giovani, quasi come spettatori inferociti, commentano, dissacrano, sabotano la vita degli adulti. Abbattono metaforicamente le statue dell’autorità, sognano di costruirne di nuove a propria immagine. Osservano le processioni, con la loro ipocrita pomposità; si lasciano dominare dallo sdegno per i favori ricevuti sai soliti noti; inarcano il sopracciglio alle prescrizioni dogmatiche dell’Istituto, la pseudo-distopica istituzione religiosa che impone la sua influenza; si crucciano dell’iniquità che il sapere ha generato, emarginando coloro che non vi possono accedere. È un mondo fazioso, formale, di educatori che paiono inumani, intriso di un senso dell’obbligo quasi militaresco, di un dogmatismo morale che si fa scudo della sua presunta e sbandierata virtù per perpetuare, nell’ombra, la logica del privilegio e dell’inganno. Un mondo da incendiare, prendendo spunto da un vecchio adagio ben noto ai siciliani. Scavone – io narrante della vicenda – e gli altri quella miccia vorrebbero tanto innescarla. Anche solo recuperando una forma ingenua, lirica di autenticità: «Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva Bitto, poiché, così scassata era un miracolo se portava gente. Del resto, il miglior tempo lo passai per essa: all’alba, nella piazza del paese, aspettando i passeggeri, e poi, alla stazione, dove faceva coincidenza con l’accelerato delle due e mezza». Ma il tempo, il momento delle grandi responsabilità che cala come una mannaia, si fa presto innanzi. I giovani si fanno barbuti signori. E i momenti di sano dissenso – persino i giorni interminabili passati a sorbirsi il chiacchiericcio all’interno dell’Istituto – assumono un volto decisamente più prosaico. I sogni rivoluzionari si placano. I figli diventano come i padri tanto osteggiati: «Ancora un altro aveva varcato il cancello ed era uscito sulla strada per non tornare mai più all’Istituto. E non pensavo, no, che guardando sul portone quel vestito grigio che spariva palmo a palmo per la scalinata, dopo Filippo e Vittorio sarei stato io a lasciare l’Istituto: così carusi ancora, la vita ci tracciava già le vie».

È il trionfo inquietante del potere. Che si insinua, si innesta, si pianta perfino sui terreni che più gli erano stati ostili. Quel potere che convince, che pretende per tutti lo stesso destino, che si innalza al di sopra di tutti attraverso una sorta di magia corruttiva. Che confina tutti in un vestito grigio ingessato, nella palude del compromesso. A reiterare le cose meschine che si era giurato di non replicare mai. Diceva Francis Scott Fitzgerald: «A diciotto anni le convinzioni sono le colline da cui ci affacciamo alla vita. A quaranta sono le caverne in cui ci nascondiamo». Perché diventare adulti è un po’ come diventare stranieri. A sé stessi. «Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva sorriso, subito m’aprivo, parlavo più del giusto, col risultato amaro, costante, di pentirmene, rimproverarmi per aver parlato».

(Foto in copertina: Geoffroy Hauwen | Unsplash)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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