Cronaca di un momento storico: De Roberto e il racconto dell’abbraccio tra Catania e Bellini
Nel 1970, il regista Robert Aldrich diresse giganti del calibro di Henry Fonda e Michael Caine in una pellicola dal titolo a dir poco curioso: Non è più tempo d’eroi. Quel motto rivelò quasi immediatamente la sua efficacia, al punto da diventare un efficace slogan descrittivo della modernità. Viene tuttora da chiedersi, infatti, chi siano – o chi siano stati – questi presunti eroi. A quale immaginario, a quale memoria collettiva, a quale sogno di perduta di grandezza siano appartenuti. E a quale destino siano andati incontro per sottrarsi pressoché completamente alla nostra percezione contemporanea. Seguendo le tracce della consuetudine, qualcuno potrebbe tratteggiare tra sé e sé immagini afferenti alla dimensione dell’epica, ai personaggi omerici o virgiliani, o ancora a quelli norreni resi universalmente celebri da Wagner. Ma un eroe, nella sua essenza più profonda, è qualcosa di più. Più delle armi che ha imbracciato, più dei nemici che ha abbattuto o degli ordini che sovvertito. Un eroe è lo specchio di una comunità. L’effigie rassicurante in cui ognuno può scorgere l’orgoglio di essergli stato vicino. È l’incarnazione di un affetto sconfinato che prescinde da ogni personale contatto, il senso perenne di innalzamento morale ed intellettuale che gli individui sperimentano anche solo pronunciandone il nome. Questi eroi, in effetti, sembrano essersi estinti. Nessuno, oggi, probabilmente saprebbe ritrovarsi nelle gesta o nella fama di qualcun altro. Nessuno fermerebbe un’intera città addobbandola a festa, sventolando con commozione striscioni e fazzoletti, improvvisando un corteo infinito, per accogliere un figlio a lungo lontano. Come fece Catania per Vincenzo Bellini, allorché, nel 1876, la sua salma venne traslata da Parigi al Duomo etneo dopo oltre quarant’anni dalla morte. Perché quel che accadde tra le strade della città dell’elefante in quei giorni febbrili fu davvero una dimostrazione di riconoscimento identitario con pochi pari. Con, per di più, un narratore d’eccezione. Tra i vari contributi giornalistici che resero conto di quegli eventi, ci fu infatti quello realizzato da Federico De Roberto e pubblicato su L’illustrazione italiana. Un contributo clinico, in cui ogni istante di quella trionfale riunione cittadina – dall’attesa spasmodica per lo sbarco al porto della nave contenente le spoglie al momento della solenne inumazione – trova un suo coerente spazio.
Già l’atmosfera annunciava inequivocabilmente i sentimenti della città e di tutti colori che erano accorsi proprio per non mancare a quell’appuntamento con la storia: «Da un mese Catania è in uno stato anormale, ognuno si sente in dovere di adoperarsi per ricevere degnamente il grande concittadino, e tutti si sono adoperati tanto che per la ristrettezza del tempo si sono fatti, miracoli. Il 21 (si intende di ottobre, visto che la salma venne inumata il 23 ottobre 1876, ndr) tutto era pronto. I trèni e i piroscafi provenienti da tutte le direzioni versavano a migliaia i forestieri, e la folla curiosa circolava per le vie della città adorna di un infinito numero di bandiere nazionali e di quelle di tutte le nazioni del mondo. Il 22 l’accorrenza dei forestieri aumentò ancora. Tutti i balconi erano parati a festa, sui muri, delle vie si vedevano le immagini di Vincenzo Bellini circondate da ghirlande e festoni di fiori, e su tutte le bocche risuonava il suo nome; era un vero entusiasmo». Sembra quasi una pagina di romanzo. Uno scorcio letterario tratto dalle avventurose vicende ideate da Dumas o la cronaca memorialistica di qualche storico di corte che ricostruisce l’avanzata di un principe o di un sovrano. Nell’eccitazione e nella commozione generali, un’intera società, ancora scottata dalle divisioni risorgimentali, ancora in cerca di una condivisa idea di libertà, si ritrovò sotto la medesima bandiera, sotto la medesima voce di giubilo per assistere a quel nostalgico rientro. «Intanto seguitava il cannoneggiamento da terra. Allorquando la nave imboccò il porto si udì un batter di mani fragoroso, i cappelli si abbassarono ed i fazzoletti sventolarono. I membri della Commissione erano raccolti sul casseretto insieme cogli uffiziali di bordo e salutarono la folla stipata alla lanterna, al molo, sui palchi, alle finestre e dentro le barche. Grandi fuochi di legna brillarono sulla costa. Poi a poco a poco i fuochi si spensero, le barche rimisero a terra i curiosi e la folla sgombrò il porto per gettarsi nelle vie. L’illuminazione di queste era magnifica, tutte le case splendevano I giardini Pacini e Bellini ridondavano di luce, le bandiere vi sventolavano e le bande vi intrattenevano la gente con la musica di Bellini. Su quel palco si tennero concerti vocali e strumentali, l’ultimo dei quali fu l’apoteosi di Bellini, scena drammatica posta in musica dal maestro Pacini».
Fu la festa per il Cigno, certo. Ma fu, altrettanto, la celebrazione del meglio che Catania aveva da offrire. Della bellezza che aveva saputo conservare nel suo cuore ferito, della statura dei suoi illustri personaggi in prima fila nell’omaggio al proprio conterraneo, del senso di coesione e di unione di intenti che raramente l’aveva animata con tale intensità. Lo stesso De Roberto, a cui pure spettava il compito di mitigare l’emozione con il distacco della cronaca, fece trasparire qua e là la sua impressione di meraviglia. la sua impressione di meraviglia. «Ma se la festa era finita, la gente voleva assistere allo sbarco delle ceneri, e muta si portò al porto. Alla Porta Uzeda si intesero le grida di: Abbasso i cavalli! a noi Bellini! Dalla Porta Uzeda alla Porta Aci le grida raddoppiarono: Staccate! Via i cavalli! Ai catanesi Bellini! Evviva Bellini! La carrozza non poté andare più innanzi; si staccarono i cavalli, s’intese un immenso grido, la gente si precipitò al timone. Fino alla piazza del Borgo non s’intesero altre grida che: Evviva Bellini! e fra esse: Viva la Francia! Viva Parigi e Catania! Mani frenetiche agitavano i cappelli ed i fazzoletti, la gente veniva ai balconi, le finestre si illuminavano. Fu una vera marcia trionfale».
I catanesi avevano finalmente riabbracciato il proprio eroe. Uno degli ultimi, forse, che la storia ricordi. Senza divisioni, senza astio. Con la sincera gioia di chi, memore del passato, si arma per affrontare il futuro. Cullato come De Roberto dall’estasi di un momento irripetibile. «Dai balconi piovevano i fiori, i mazzi, le corone, i sonetti. Alle 6 il carro giunse alla Cattedrale, sul cui frontone in una coltre nera era scritto: Questa basilica — ove dormono dimenticate — le ossa di tanti re — diventerà questo giorno famosa — per la tomba — di — Vincenzo Bellini (di Mario Rapisardi). La domenica, 24, la chiesa era trasformata in cappella ardente. La sera la banda di Messina intuonò l’aria del Pirata: Nel furor delle tempeste , che fu fatta ripetere ben otto volte. Infine si illuminò a fuochi di bengala tutta la via Stesicoro Etnea, e dissipato il fumo si lesse sull’arco di trionfo il nome di Bellini, che ormai riposa nella terra che lo vide nascere».