Da Catania a Palermo, andata e ritorno (al futuro) dell’Hard Rock Cafè in Sicilia
Nel 2026, in via Maqueda a Palermo, aprirà uno dei locali appartenenti alla storica catena nata all’alba degli anni ’70 a Londra. Mentre l’entusiasmo per la notizia cavalca il web, la memoria torna ad una ventina d’anni fa: quando quello scorcio di American Dream si era fatto largo a Catania, per la prima volta al Sud, a due passi dalla Pescheria e dagli Archi della Marina. Un’apertura in grande stile, un fenomeno popolare. Poi due anni travagliati e la chiusura. Ripercorriamo la storia di quel luogo e del suo fallimento, per capire cosa non ha funzionato e cosa auspicabilmente potrebbe rendere vincente l’esperienza che si appresta ad approdare nel capoluogo
Entravi e trovavi Hendrix sul muro, bevevi un “Hurricane” tra neon viola e un poster dei Ramones, e uscivi con la spilla limited edition del Liotru che imbraccia una Stratocaster come fosse un trofeo. In Sicilia, l’American Dream in salsa rock è esistito davvero. Era l’Hard Rock Cafè. Ed era qui, a Catania. Tra chitarre firmate appese come reliquie, t-shirt da collezione e poster alle pareti, si respirava l’aria di un mondo che voleva essere ovunque – e subito.
E invece no: la promessa che bastasse un brand internazionale per mettere una città sulla mappa si è rivelata fragile. In pochi anni le luci si sono spente, il locale ha chiuso, e di quel pezzo d’America trapiantato nella Pescheria è rimasto solo un ricordo. Il futuro, semplicemente, ha svoltato altrove. Eppure, proprio nei giorni in cui si celebra il Back to the Future Day – quella data cult in cui Marty McFly atterra a bordo di una DeLorean lanciata a 88 miglia orarie, e il mondo si chiede dove sia davvero finito – in Sicilia si è riaccesa una scintilla. Perché nel 2026, l’Hard Rock Cafè tornerà. Questa volta a Palermo. E l’effetto è un po’ quello: un viaggio nel tempo. Un nuovo locale, un’altra città. Stessa insegna, stessa promessa.

IL MARCHIO ROCK CHE HA CAMBIATO LA RITORAZIONE. Tutto comincia a Londra nel 1971, quando gli americani Peter Morton e Isaac Tigrett aprono un diner in Old Park Lane. Lo chiamano Hard Rock Cafè. In apparenza è un locale come tanti, ma alle pareti non ci sono quadri, ma chitarre. Autentiche. Appese. Firmate. Quello che doveva essere un burger bar per rockettari nostalgici diventa nel giro di pochi anni, una religione laica: piatti XL, un eterno jukebox fatto di riff, assoli e leggende a rotazione, camerieri con spillette brandizzate e gadget da collezione. La formula funziona e in pochi anni il brand colonizza il pianeta: da New York a Tokyo, da Reykjavik a Dubai, passando per Londra e Orlando. Locali, hotel, casinò, magliette con la scritta “Hard Rock Cafè + città del cuore” da indossare ovunque. Il rock si può ordinare, fotografare e portare a casa. Ma quel modello non è solo glamour: è anche standardizzazione, uniformità, brand globale che prova a inserirsi in città con identità molto forti.
120° NEL MONDO, SECONDO IN ITALIA: L’AMERICAN DREAM PARTITO DALLA PESCHERIA. All’inizio degli anni Duemila, Catania è nel pieno del suo fermento notturno. La scena è effervescente: Via Etnea, il centro storico, Piazza Teatro Massimo sono il cuore di una movida fatta di locali pieni e musica dal vivo. In quel contesto, aprire un Hard Rock Cafe sembra la mossa perfetta: un brand globale, una città affamata di novità, una clientela pronta – dagli studenti universitari ai militari americani di Sigonella. L’investimento è importante: 2,5 milioni di euro, 80 contratti full-time attivati subito, una sede iconica ricavata in un edificio riqualificato di via Cristoforo Colombo, a due passi dalla Pescheria e dagli Archi della Marina. Il 14 giugno 2004, le spille recitano “Grand Opening” per il 120° Hard Rock Cafè del mondo, il secondo in Italia dopo Roma. Ai tavoli, scorrono patatine croccanti, i “Legendary Burger” oversize e milkshake al cioccolato. La proprietà presenta il nuovo locale come una scommessa culturale: “Un concetto nuovo, un ristorante a tema rock pensato in visione futuristica, ricco di memorabilia e oggetti originali”. Sembra l’inizio di una rivoluzione.



UN SOGNO ANDATO IN FADE-OUT. Ma i segnali di crisi arrivano presto. Il flusso di clientela previsto non si materializza mai davvero. Catania è fedele ai suoi riti, i suoi bar storici, alle abitudini che non amano i format. E anche il contesto non aiuta. Il cibo viene percepito come troppo costoso, la zona non è vissuta come centrale, e la sua reputazione tiene lontani adolescenti e famiglie. A pochi metri, c’è l’Ostello, con la sua anima alternativa e low budget: mondi che si sfiorano, ma non si parlano. I numeri crollano: si passa da 80 a 54 dipendenti, poi ancora giù. Parte la procedura di mobilità, e in tanti lasciano. Una dipendente intervistata al TG Regionale afferma: “Siamo tristi perché noi ci avevamo creduto in questo posto.” Un’altra voce sottolinea la scelta infelice della location: “Credo che sia la zona sbagliata. È nascosta, il Duomo la perde, la coprono gli Archi della Marina”. Il locale chiude nel 2006 dopo anni di tentativi, cambi di gestione e qualche serata che prova a riaccenderne lo spirito, senza mai riuscirci davvero.
DA FAST FOOD A SPAZIO POPOLARE. Dopo lo spegnimento delle insegne, l’ex Hard Rock Cafe resta fermo fino al 2018, quando la “Comunità Resistenza Piazzetta” lo trasforma nel “Centro Popolare Occupato Colapesce”: nessun gadget da collezione, ma doposcuola popolare per i bambini, laboratori e attività ricreative, sportelli di supporto legale e sindacale per lavoratori, migranti e persone in difficoltà. Un altro modo di abitare lo spazio che però dura poco più di un anno. Su richiesta di Unicredit, proprietaria dell’immobile, l’occupazione viene sgomberata con la forza. Da allora: niente. Serrande giù, porte chiuse, nessun progetto. Una storia che parla di occasioni perse, città che cambiano troppo in fretta, o non cambiano affatto.


UN’ALTRA CITTÀ, UN’ALTRA STORIA. Ora tocca a Palermo. Nel 2026 l’Hard Rock Cafè sorgerà in via Maqueda, in un palazzo storico nel cuore pulsante della città. La prossima apertura segna un nuovo capitolo, e chissà che la città non sappia dare a questo Hard Rock quella marcia in più che a Catania è mancata. In fondo, ogni città ha il suo carattere, e forse il capoluogo siciliano riuscirà a mixare al meglio il fascino internazionale del brand con il calore della tradizione. L’operazione non è priva di rischi. Palermo è una città complessa, fatta di estetiche stratificate, orgoglio identitario e una scena culturale che non ama le imposizioni. Ma è proprio su questa linea sottile, tra globalizzazione e appartenenza locale, che si gioca la vera sfida. Se l’Hard Rock Cafe saprà evitare di apparire come un corpo estraneo, diventando piuttosto uno spazio capace di dialogare, accogliere, ascoltare e magari contaminarsi, allora potrà trasformarsi in qualcosa di più di un semplice franchise.
Potrebbe funzionare. E il ritorno al futuro, stavolta, valere davvero il viaggio.




