Da pastore di pecore a fenomeno letterario: il volo poetico di Giacomo Giardina

Nato nel minuscolo paese di Godrano, rimase abbagliato dall’incontro con la poesia futurista. Nel giro di poco tempo, da guardiano di un gregge, si ritrovò, grazie a Marinetti che vide in lui un enorme talento, sulle labbra di tutta Italia, affascinata dalla ribalta di quel poeta campagnolo. Dopo la grande fama, tuttavia, ci furono anche parecchi bassi: e i suoi versi nostalgici, lentamente, finirono per eclissarsi

La storia della letteratura è, essenzialmente, una storia di traiettorie. Alcune logiche, lineari, dallo sviluppo armonico. Altre contorte, insondabili, persino incoerenti a tratti. Su questi arditi binari, accenti bucolici finiscono per lambire il fastoso rigore borghese. L’agreste semplicità di un canto il frenetico frinire delle avanguardie. Il dialetto incontra la lingua. La parola le immagini. Un verso animale si mescola ad un suono disarticolato. La terra, con la sua pesantezza, si solleva fino a sfiorare le vette più inesplorate della fama. Per innescarle, queste traiettorie, il più delle volte basta appena un frammento di scintilla. Un dettaglio depositato chissà in quale cassetto della memoria. Basta una biblioteca, una tipografia, un volume ingiallito su uno scaffale troppo in alto, un verso appartenente ad un mondo sconosciuto. Ed ecco che l’imponderabile si tramuta repentinamente in realtà. A questa categoria di vicende appartiene certamente quella di un singolare siciliano, la cui vita – e la cui esperienza letteraria – ha conosciuto vertiginosi alti e bassi: quelli del folgorante successo e dell’isolamento; della miseria e della speranza; della rovina e della bellezza; dello smarrimento e del riscatto. Il suo nome era Giacomo Giardina. Ma è probabile che qualcuno, ancora oggi, riesca più facilmente ad associarlo all’etichetta di “poeta-pecoraio”. Perché a Godrano, piccolo paese di campagna del palermitano che oggi conta poco più di mille anime, agli albori del ‘900, non c’era molto altro che egli potesse fare. Come un novello Davide, le sue giornate da pastorello, da guardiano del gregge, trascorrevano lente, inesorabili, lontane da qualunque affetto che non fosse quello della natura. Ma già una dolcezza, una qual certa propensione lirica gli molceva il cuore. Un istinto che da Bagheria – luogo che di tanto in tanto amava frequentare e rappresentare nei suoi primi abbozzi in versi e presso il quale fu anche impiegato come tipografo – lo condusse al di là di ogni inconscio desiderio.

Fu qui, nella città natale di Guttuso – col quale poi strinse una sincera e profonda amicizia – che Giardina, negli anni ’20, si imbatté, rimanendone folgorato, nei testi letterari del Futurismo. Quel dettato, così alieno alle sue consuetudini, lo catturò al punto da spingerlo ad inaugurare un connubio epistolare con Tommaso Marinetti, leader indiscusso del movimento. Il quale, nonostante un carattere tutt’altro che affabile, si erse immediatamente a suo protettore, incoraggiandone il talento appena sbocciato. Dalle lettere si passò ben presto a qualcosa di più: ad un sodalizio dell’anima. Marinetti lo introdusse presso la intellighenzia palermitana, lo elogiò pubblicamente, ne vagliò attentamente i versi e firmò persino la prefazione alla sua prima raccolta poetica, ovvero Quand’ero pecoraio (1931). La lezione futurista, fatta di improvvise e suggestive allusioni, di irrefrenabili pulsioni al movimento, alla trasformazione, avevano incontrato il sapore nostalgico e quieto della penna di Giardina. Il suo occhio nostalgico e indagatore, il suo attaccamento al mondo che aveva generato lui e suoi canti primordiali. Canti come Bagheria Anni ’30:

«La rozza mano di Godrano
seminava largo il pugno di grano:
nel fermento istantaneo m’afferro e prendo presto radice.
Dalla fertile terra rialzata di Monte Ciancaldo
io ti guardo o spettacolosa Bagheria:
ti guardo timido dalla cima tra le foglie
carnose del fico d’india
tra il fruscio increspato delle spighe
ad onda come illusione di mare:
che poi scopro: mare verde
che realmente si specchia a sera
e risplende nel golfo d’ Aspra
come messaggio con le parole del vomere…
[…]
io da vero poeta-analfabeta
sì rivivo Virgilio unito a Bagheria in Paradiso:
lo canto con spontaneo slancio d’ amore
al sole al vento all’ agrore prezioso del limone….
e la paglia vola coprendo il fossazzo creando la mezzaluna bianca
per la serenata…»

Giacomo Giardina, “Bagheria Anni ’30”

Tutta Italia aveva sulle labbra quel giovane così anticonvenzionale. Quel ragazzotto dal sorriso semplice e spontaneo, che amava andare in giro con il suo borsone pieno zeppo di appunti, manoscritti, sigarette e frutta. Un evento, tuttavia, giunse a turbare questo idillio. Nel 1944, Marinetti morì. E con lui quella parentesi di giovinezza, di ispirazione aurorale che lo aveva destato. Quasi preda di un moto di regressione, Giardina scomparve dalle scene. Tornò a Godrano, arrabattandosi tra qualche comparsata a feste e matrimoni e l’attività di venditore ambulante di calze e mutande. Un silenzio poetico di circa 15 anni avvolse il suo talento. Fino a quando, agli inizi degli anni ’60, un articolo che lo citava non risvegliò il suo amore sopito per la lirica. Un amore al quale non volle più rinunziare. Il favore dell’opinione pubblica sembrò nuovamente arridergli: persino il regista Francesco Rosi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Levi, volle riservargli un ruolo nel mondo del cinema. Ma forse, in fondo, il suo tempo era già trascorso. Una nuova cappa di oblio scese sul suo nome. Gli ultimi anni, trascorsi a Bagheria, là dove il mito del poeta campagnolo aveva iniziato a sfavillare, furono funestati da solitudine e povertà. Morì nel 1994. Sulla sua tomba chiese che venisse riportato il titolo di una delle sue raccolte poetiche: Dante ambulante nel mio paese.

Come il Sommo Poeta, Giardina era riuscito a varcare la soglia di un altro mondo. Di una dimensione che mai, sulla carta, avrebbe dovuto o potuto conoscere. Ma dalle briglie del destino, almeno per un po’, egli era riuscito a divincolarsi. Sostituendo la penna alla verga. Prima che il conto gli venisse ripresentato. «Ritorno al paesetto natio: / tutto come prima! / Il camposanto sul capo, / la stazioncina stordita di sole / al fianco / la chiesa e la fontana sul cuore / e il mulino sventrato dalla / violenza dell’acqua / al piede pastellato della tavolozza / natia. / Il solito vecchio pennello del pino, / diritto verso la tela del cielo, / la sera / ritocca la faccia scema della luna / tutto come prima!».

(Immagine in copertina generata con Image Bing Creator)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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