Diamanti rubati, tele nascoste e un mistero internazionale: Valguarnera, il ladro geniale tradito dalla fede

Medico, matematico, ma soprattutto grande intenditore di pietre preziose e innamorato della pittura. È così che Sciascia in “Quadri e diamanti” ci descrive il nobile palermitano che, all’inizio del XVII secolo, si fece beffe degli spagnoli, Re compreso, sottraendo una preziosa spedizione, con la quale acquistò i dipinti dei più grandi artisti dell’epoca. La sua fama si diffuse in tutta Europa, ma nessuno riusciva a catturarlo, come il miglior Lupin. Fino a quando la sua devozione e il suo desiderio di rendere indimenticabile una processione romana non gli costarono la libertà

La tenacia e l’ardore dell’arco di Robin Hood. La multiforme e maliziosa anima errante di Cagliostro. L’eleganza e l’ironia di Marius Jacob, l’uomo che avrebbe ispirato la nascita del personaggio di Arsenio Lupin. Avventurieri di epoche e spazi diversi, uniti tuttavia dall’inarrestabile necessità dell’avventura e del brivido. È grazie a loro – e ai tanti emuli che ne hanno calcato le orme – se nell’immaginario comune si è istituito una sorta di nesso tra anarchia e libertà, tra il fascino dell’insubordinazione e l’opprimente invadenza delle regole. Si dice di loro, del rifiuto di piegarsi alla volontà altrui, specie se ritenuta profondamente ingiusta, che siano ciò che le persone comuni sognano di essere e che non hanno il coraggio di diventare. Talvolta dipinti come eroi senza mantello, riparatori di una giustizia cieca e fallace, machiavellici trafficatori di segreti scottanti e leggendari misteri, sono giunti a detenere persino un’aura di laica santità, quando non un vero plebiscito di approvazione popolare, che li ha consegnati alla memoria come inafferrabili maschere da opporre alle voglie predatorie del potere. Nel museo storico-letterario che le contiene, c’è spazio anche per una veracemente siciliana. Un uomo a dir poco singolare, animato da una complessa trama di slanci e di istinti, disposto a tutto, persino ad affrontare la solitudine più profonda per soddisfare la propria passione: vale a dire il collezionismo d’arte. Fabrizio Valguarnera di Godrano, d’altro canto, di ordinario aveva davvero poco. Non certo le origini e il blasone familiare, che lo vedevano discendere da raffinati poeti, abili signori della politica e cavalieri dalle mille virtù. Non le ambizioni, che fin da giovane lo avevano proiettato al di là dei confini isolani, lì dove il suo ingegno avrebbe potuto sfavillare senza restrizioni. Non la fama, che ben presto lo face balzare agli onori delle cronache in tutta Europa. E che lo condusse, a tre secoli e mezzo di distanza, tra le pagine di Leonardo Sciascia, che proprio a questo bizzarro personaggio, nel 1989, dedicò Quadri come diamanti, uno dei saggi contenuti in Fatti diversi di storia letteraria e civile. «Tra i trent’otto e i quarant’anni – scrive Sciascia presentandone mirabilmente le caratteristiche salienti – aveva certamente “le physique du role”. Si diceva, oltre che “licenziato” in diritto, matematico ed esperto in “varie sorte de medicine”; ma non gli pareva fosse un mestiere quello di essere “pratico de pitture”: oggi lucroso, e allora cominciava ad esserlo. Gli pareva fosse un diletto connaturato alla sua classe, così come l’intendersi di gioielli, di pietre preziose. Più teneva, pare, a farsi fama di medico: e si vantava di aver guarito Rubens dalla podagra, a Madrid; e doveva esserci del vero».

Perché al centro del grande intrigo che scosse la Spagna negli anni ’30 del XVII secolo – terra nella quale Valguarnera si era trasferito lasciandosi dietro la moglie e sfruttando l’appoggio che gli veniva dallo zio Mariano, cappellano del Re Filippo IV – vi era infatti un ingente carico di diamanti destinato ad un gruppo di gioiellieri iberici e fiamminghi. Una spedizione che mai, tuttavia, arrivò a destinazione. Per il buon compimento dell’operazione era stato incaricato un portoghese, un certo Manuel Alvarez, di cui si erano perse le tracce. A Valguarnera, che gli era legato da rapporti personali, era stato dunque chiesto di indagare su quella misteriosa scomparsa. E, subito dopo, anche lui era svanito nel nulla. I sospetti erano diventati realtà: il nobile siciliano era a tutti gli effetti coinvolto nella vicenda. Una vera caccia all’uomo internazionale era allora stata messa in campo: «Ora i ladri da cercare erano due: e i mercanti spesero migliaia di scudi per farne ricerca a Barcellona, a Siviglia, Palermo, Messina; e insomma in ogni città dove pareva avessero potuto trovare rifugio. Ma ad un certo punto, si convinsero che era da cercarne uno solo, fondatamente credendo, stante il carattere del personaggio e il diabolico fascino che i diamanti avrebbero su di lui esercitato, che don Fabrizio si fosse già liberato di Manuel, uccidendolo».

Ma ecco, d’un tratto, l’ennesimo colpo di scena. Un uomo dai toni affabulanti era apparso a Roma, nel 1631, presentandosi come Antonio Siciliano. Segni particolari: una gran quantità di diamanti al seguito, con i quali aveva finanziato i suoi viaggi, denaro in contante pronto per essere speso e un insieme di prestigiosi quadri tenuti in chissà quale deposito segreto. Perfino il più novellino tra gli investigatori avrebbe ricondotto quello pseudonimo al Valguarnera. Tradito, forse, nel suo articolato piano, dalla fede. Nella capitale, Fabrizio si era infatti rivolto a don Matteo Catalano, reggente della chiesa dei siciliani in Roma, ovvero Santa Maria di Costantinopoli. Voleva che la festa sacra in suo onore, prevista per il 10 giugno di quell’anno, fosse la più solenne mai vista. E così era effettivamente stata: durante le celebrazioni, in chiesa erano stati esposti ben otto quadri di prestigiosi pittori, da Poussin a van Dyck. Catalano, all’oscuro della provenienza di quelle opere, aveva realizzato il sogno del geniale ladro. Ma ne aveva anche, indirettamente, segnato la fine. Dai quadri fu semplice risalire a lui: «A poco più di un mese dalla festa, il 12 luglio del 1631, don Fabrizio Valguarnera veniva arrestato e tradotto nel carcere di Tordinona. Nel verbale di sequestro di tutto quel che si trova nel suo alloggio alla meticolosità con cui vengono inventariati i quadri nemmeno corrisponde una sommaria elencazione dei preziosi oggetti, delle pietre, che pure ci dovevano essere. I 37 quadri sequestrati venivano inventariati per soggetto e senza i nomi degli autori. Nell’insieme, una collezione che oggi occuperebbe un museo o sarebbe meta delle greggi turistiche e scolastiche. Di ogni quadro, don Fabrizio è in grado di fare la storia, anche di quelli che, per vendita o cambio, non ha più». E quasi viene da immaginarlo, mentre rivolge l’ultimo saluto a Rubens, a Correggio, a Giovanni Lanfranco, ad Annibale Carracci. I suoi compagni di una vita. Ma anche la pistola fumante delle sue responsabilità.

A Tordinona, qualche mese dopo, il 2 gennaio 1632, Valguarnera avrebbe trovato la morte. In circostanze che l’acume di Sciascia non poteva che ritenere torbide. Forse avvelenato dai suoi carcerieri, come sovente accadeva al tempo. Vittima, lui complottista navigato, di un altro meschino complotto. «Così com’è difficile liberarci dal sospetto che quei tredici sacchetti di diamanti grezzi, sbirri e giudici romani li avessero trovati nell’abitazione di don Fabrizio e su essi stabilito un patto». Il nostro conterraneo aveva dato tutto per inseguire quelle tele, quelle cornici, un senso sui generis della fede. Ma una maledizione lo aveva colpito. E come tutte le maledizioni che si rispettino, si preparava a passare su qualcun altro. Sarà che, come dice qualcuno, i diamanti sono i migliori amici delle donne. Ma per gli uomini non si può dire altrettanto.

(Immagine in copertina realizzata con Bing Image Creator)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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