Diventare adulti restando giovani: Vittorini e il senso del crescere tra le pagine de “Il garofano rosso”
In uno dei grandi classici della letteratura italiana, lo scrittore siciliano, rivivendo parte della sua vita nel suo alter ego letterario Alessio Mainardi, si interroga su cosa significhi davvero diventare grandi. Oggi come ieri, il prezzo da pagare per sentirci maturi è accettare passivamente un mondo fatto di malizie e soprusi?
In quello straordinario concentrato di bellezza che è L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez, attraverso le vicende del dottor Juvenal Urbino, offre al lettore la seguente riflessione circa il rapporto che intercorre tra infanzia e maturità: «I bambini si ammalano solo quando sono davvero malati. Gli adulti, invece, a partire da una certa età, o avevano i sintomi senza le malattie o qualcosa di peggio». Se ordinariamente crediamo di saper determinare con ragionevole certezza il sopraggiungere dell’età adulta, la letteratura, in realtà, si è spesso interrogata per confutare questa presunta consapevolezza. Dimostrando come il confine tra le due grandi dimensioni dell’esistenza, piuttosto che una barba o qualche centimetro in più segnato da una tacca sullo stipite di una porta, sia in realtà una catena di sfumature. Una sottile intercapedine tra l’entusiasmo di un sogno e l’amarezza di ciò che è concreto. Un incontro inaspettato sul viale della monotonia. E così Frédéric Moreau, ne L’educazione sentimentale di Flaubert, si accorge progressivamente che l’ossessione per il denaro ha finito per condizionare le sue scelte e i suoi rapporti personali; mentre Huckleberry Finn, personaggio nato dalla penna di Mark Twain, matura un’insopprimibile insofferenza verso le convenzioni e le gerarchie, votando la sua vita alla causa della libertà. E che dire di Scout e Jem, protagonisti de Il buio oltre la siepe di Harper Lee, che imparano a loro spese quanto sia difficile amare il prossimo senza farsi carico delle sue imperfezioni? Tra questi giovani di carta cresciuti tra una disillusione e l’altra rientra anche un siracusano: Alessio Mainardi, la cui vicenda è sapientemente narrata da Elio Vittorini ne Il garofano rosso (1948). Nel suo burrascoso passaggio tra adolescenza e maturità – che il testo ci racconta a partire dal 1924, anno del delitto Matteotti – lo scrittore isolano racchiuse non soltanto una parte importante della propria vita e della propria formazione intellettuale all’ombra del regime fascista, ma anche quella di un’intera generazione, costretta a fare i conti con la propria incapacità di lasciare tracce autentiche e durature. E con le macerie di un progetto sociale e morale che sembrava non potere essere scalfito.
Agli occhi di Alessio, infatti, il mondo, racchiuso tra le strade sinuose della propria città, appare progressivamente come un immenso palcoscenico in trasformazione. Come un trampolino caricato di uno slancio inesauribile verso il domani. Le prime impacciate e tenere esperienze d’amore con la compagna di liceo Giovanna (che gli lascia in dono un garofano rosso, associato nel linguaggio dei fiori ad un sentimento destinato a non spezzarsi) si trasformano ben presto nell’oscura e carnale passione per la prostituta Zobeida; il distacco dalla famiglia, e in particolare dall’asettica figura paterna, gli conferiscono apparentemente la responsabilizzazione tanto agognata. E, soprattutto, il suo entusiasmo confusamente anarchico finisce per trovare iniziale riflesso nelle promesse di rinnovamento del partito fascista. Eppure, questa smisurata fiducia nel mondo dei grandi, nei modelli costruiti e sostenuti da una cultura avida di successo e di affermazione personale, finisce per sgretolarsi quando Alessio scopre un’amara verità: ovvero che crescere fa spesso rima con malizia e con sgradevoli compromessi. Perché la famiglia, che pure lo ha fatto soffrire, è comunque quel luogo dell’anima che rinfresca nella memoria, alla vista dei fratelli e della sorella, riti ed emozioni rimaste a lungo sopite. Perché la scuola, con la sua ingessata etichetta, è tuttavia la palestra del senso critico. Perché la politica del regime disvela il suo volto più brutale, più iniquo, più lontano dai bisogni degli ultimi. E perché l’amore, quello complicato che noi adulti fatichiamo a gestire, è un refolo di vento che accarezza le guance prima di spegnersi chissà dove. «Ma le mie parole – afferma Alessio – non dicevano nulla di vero. E sentivo che quel vuoto non veniva dalla fine improvvisa che aveva cancellato lei, la donna bionda, e ch’era invece un vuoto più antico, a cui sarei giunto in ogni modo appena mi fossi trovato fuori dalla casa delle mie notti di febbre e di desiderio. Era il vuoto di ogni volta che avevo lasciato lei per tornare al mio vecchio mondo di ragazzo e che ogni volta avevo creduto di riempire correndo di nuovo a lei: il vuoto dell’amicizia perduta, e del bene che non avevo detto».
È il disincanto il marchio distintivo dell’adulto. La scelta difficile – ma quasi sempre tremendamente necessaria – tra l’aderenza ad un modello spiacevole e il perenne rimpianto per ciò che non è stato. Ma forse, proprio come Alessio che dal fondo delle sue delusioni ricostruisce sé stesso alla luce di una nuova sensibilità per tutti gli offesi ignorati, dentro quegli adulti giace ancora, rannicchiato sotto il cielo dei propri desideri, un giovane in cerca della sua strada. Un giovane che il mondo voglia cambiarlo, e non navigarlo a immagine e somiglianza di qualcun altro. Che attende di scoprire come il senso del diventare grandi risieda semplicemente nell’imparare che la direzione del proprio cammino è un segreto da carpire giorno dopo giorno.