«Era di nostra vita a mità juntu»: alla scoperta della Divina Commedia in siciliano
Autore e lettore. Un binomio sacrosanto, inossidabile, prezioso. Su queste fondamenta poggia il magnifico edificio della letteratura. Perché la letteratura non basta a sé stessa, non è autosufficiente: si nutre di mediazioni, di incontri e talora di scontri, di mondi diametralmente lontani che entrano in contatto per produrne altri del tutto originali e impensabili. Per questo motivo anche la traduzione è una raffinatissima forma letteraria: la sua natura la autorizza ad osare, a creare connessioni ardite ed affascinanti, a scovare nei testi potenzialità rinnovate, e a metterle al servizio di chiunque volesse approcciarvisi. La Sicilia ha dato i natali ad un coltissimo traduttore, capace di passare con agio dal francese al portoghese (ma anche alle lingue scandinave), ma soprattutto noto al grande pubblico per aver realizzato un’impresa senza precedenti: la traduzione integrale in dialetto siciliano della Divina Commedia. Il suo nome era Tommaso Cannizzaro e proveniva da Messina.
Era il 1904 quando l’ambizioso progetto di colui che fu anche un apprezzabile poeta vide la luce. La traduzione del capolavoro di Dante non fu che il compimento di un percorso umano ed intellettuale che lo aveva già reso famoso nei più prestigiosi ambienti della cultura europea: le sue opere originali avevano varcato i confini nazionali fino a giungere a Praga; la sua passione per la letteratura francese e i suoi risultati da traduttore gli avevano guadagnato l’onore dell’ingresso presso l’Accademia di Francia; inoltre, in uno dei suoi frequenti viaggi in giro per il Vecchio Continente, aveva conosciuto l’immenso Victor Hugo, autore, tra le altre, de I miserabili. Ma il compito di traslare la sacralità letteraria del Sommo Poeta nella nostra parlata regionale assurse sicuramente a compito più arduo della sua carriera. Non soltanto per la difficoltà oggettiva dell’operazione – che richiedeva un triplice procedimento: assimilazione dell’italiano poetico del’300, attualizzazione all’italiano corrente della sua epoca e passaggio finale al siciliano – ma anche per la grandezza smisurata dell’opera, capace come poche di raccontare la storia di un singolo e al tempo stesso di tratteggiare il destino dell’intera umanità. Nonostante queste complicate premesse, il risultato fu decisamente apprezzabile. Riportiamo, a mo’ di esempio, uno stralcio tratto dal III canto dell’Inferno, in cui Dante, scortato da Virgilio, sperimenta il primo approccio con la spaventosa realtà infernale: «Ddhà guai, ddhà chianti, ddhà suspiri assai / ‘ntunavunu ntra ddh’aria senza stiddhi, / tantu chi jo ‘nprincipiu lacrimai. / Linguaggi orenni, àuti vuci e vuciddhi, / diversi gridi di duluri e d’ira, / e battuti di mani ‘nzemi a chiddhi, / un trimurtu facia ntra ddh’aria nira, / un firriu tunnu, comu fa la rina. / Rifuliannu quannu ventu tira». La familiarità di alcune espressioni, la ripetitività di alcuni concetti che conferisce loro forza – senza rinunciare ai richiami all’originale di cui si percepisce chiaramente l’eco – la rendono una traduzione ben riuscita, e utile nonostante sia trascorso più di un secolo.
Come i rapsodi dell’antica Grecia tenevano vivi i miti fondativi della cultura ellenica trasmettendoli oralmente ad un pubblico meno avvezzo alla loro frequentazione, così lo sforzo di Cannizzaro permette a qualsiasi tipo di lettore l’accesso ad un bene così inestimabile come la Commedia. E, meglio di altre posticce e arzigogolate traduzioni da libro scolastico, la restituisce alla sua dimensione genuinamente popolare: proprio per tale motivo Dante si era premurato di scriverla in volgare e non in latino. E proprio questa, in definitiva, deve essere la missione della letteratura: raggiungere la popolarità senza sminuirsi nel significato. L’ampiezza del pubblico, al contrario di quanto certi stereotipi vogliono far passare, non è riduzione di valore, ma incremento. Per formare il binomio di cui abbiamo parlato in apertura, il primo passo spetta all’autore. Il nostro conterraneo era ben consapevole di questa realtà. E ha saputo fare della sua intuizione un ponte tra il sublime e l’essenziale.