Fra agosto e dicembre del 2017, per un semestre universitario, ho vissuto in una città della Russia europea. Non parlo più tanto di quel periodo della mia vita, specie poi in un frangente in cui i rapporti con la Russia (pure miei personali) sono così controversi, anche se durante e dopo il mio soggiorno ero così ossessionata da quel Paese e da chi avevo conosciuto laggiù, che tiravo fuori l’argomento praticamente con chiunque.

A pensarci adesso mi sembra un’altra vita, vissuta come in un sogno, ma i cui ricordi sono ancora nitidi e capaci di rimescolarmi lo stomaco. E, se l’ho appurato e ci ho pensato, è perché in libreria è uscito il nuovo libro di Annie Ernaux, Premio Nobel per la Letteratura nel 2022: si chiama Perdersi, come sempre in Italia lo ha pubblicato L’Orma Editore nella traduzione di Lorenzo Flabbi, e racconta del viaggio in URSS dell’autrice nel 1989, in occasione del quale aveva conosciuto un uomo di nome S., che per un po’ è diventato il suo amante.

Anch’io laggiù avevo conosciuto un uomo, di nome D., che però il mio amante non lo è mai diventato. Non ho mai saputo cosa sarebbe potuto succedere fra di noi, a tratti pensavo tutto, a tratti mai e poi mai niente, ma sta di fatto che il diario misurato e al tempo stesso viscerale di Ernaux ha aperto uno squarcio nella mia memoria, mi ha proposto uno scenario alternativo, ha dato voce a stati d’animo così imbarazzanti e colpevoli da non essere mai stati espressi fino in fondo ad alta voce.

Lei scriveva pagine di diario, io poesie. Forse perché il diario è la forma in cui si registra ciò che succede, mentre la poesia è quella in cui si ricama su ciò che non accade. Eppure, anche se con parole ed esiti diversi, con vite lontanissime, con dettagli impossibili da replicare uguali a sé stessi, nelle parole di Ernaux ho ritrovato il fuoco che accendeva le mie.

«A volte riesco a cogliere il suo volto, ma molto fugacemente. Ora no, ora si perde. So i suoi occhi, la forma delle labbra, i denti, ma nulla forma un insieme. Solo il suo corpo è per me identificabile, le mani non ancora. Sono consumata dal desiderio, piango», annota per esempio Ernaux. E annota molto altro, di ancora più fremente, a onor del vero, che supera la letteratura e approda nella vita. Che scava nell’indicibile, lo tiene tra le mani e lo presenta a chi legge, mettendo su un piatto il suo cuore e lasciando che gli altri lo fissino come fanno con le statue di Canova nei musei.

E poco importa che non sia un cuore altrettanto liscio, altrettanto puro, altrettanto deciso, rispetto al marmo. Ernaux lo osserva al microscopio, e così facendo gli restituisce una dignità – culturale, linguistica, ma soprattutto umana – che aiuta a ritrasformare in cuore anche la carcassa che noi pensavamo di abbandonare all’angolo di una strada di campagna.

Riprendetevela, ho l’impressione che voglia dirci con questo suo segna-libro, la vostra identità emotiva. Anche se non vi rappresentava come avreste voluto, anche se era fatta di fitte fugaci e di una danza estenuante di incanto e disperazione. E grazie al suo coraggio e alla sua schiettezza, allo stile asciutto ma denso di ardore che qui scivola un rigo dopo l’altro fino a un epilogo inesorabile, ci rimette in pace con il nostro passato. Anzi, forse fa pure qualcosa di più.

«Ricordo quando sono arrivata a Mosca nell’81 (intorno al 9 ottobre), c’era un soldato russo, così alto, così giovane, le mie lacrime spontanee, la commozione di essere lì, in quel Paese quasi immaginario. Ora è un po’ come se stessi facendo l’amore con quel soldato, come se tutta l’emozione di sette anni fa mi avesse portata a S.», scrive infatti l’autrice francese.

Ora che sono arrivata in fondo ai suoi diari terribili e toccanti, febbrili e ispirati, è un po’ come se stessi facendo anch’io per l’ultima volta l’amore mentale con quell’uomo, come se mi si fosse gonfiata ancora la mente e, con dolorose doglie, fosse nata un’ultima poesia illegittimamente.

«Porterà solo il mio nome / ma ha la tua aria straniera ti somiglia / mentre non sospetti niente di niente / sappi che ti è nata una figlia», finisce per recitare un breve componimento di Vivian Lamarque. Una figlia libera di andare per il mondo, un po’ come un libro, e che anziché tormentare i ricordi ci guarda negli occhi e ci dice, con calma, con dolcezza: «Io ti vedo. E oggi è il giorno in cui ti perdono».

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