In scena il 24 e 25 novembre al Piccolo Teatro di Catania, l’attrice e regista palermitana farà rivivere a teatro la controversa scrittrice, autrice fra l’altro de “L’arte della gioia”, che, dopo traumatiche esperienze come depressione e manicomio, ha trovato il suo riscatto con l’ausilio della scrittura

La scrittura come terapia; ne era convinto Primo Levi che vedeva nel foglio di carta un degno sostituto dello psicanalista. Raccontare nero su bianco un’esperienza traumatica oppure un lutto è un modo per liberare l’emotività e diminuire il dolore. È quanto accade alla scrittrice catanese Goliarda Sapienza dopo la morte della madre, Maria Giudice, la cui perdita la spingerà verso la depressione, l’insonnia e due tentativi di suicidio, il primo dei quali curato con l’elettroshock. La guarigione però arriverà attraverso la scrittura, un percorso di ri-nascita raccontato nelle pagine del romanzo “Filo di mezzogiorno”, ripubblicato a gennaio dalla casa editrice La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, da cui prende le mosse Paola Pace per il suo spettacolo “Goliarda Music-Hall”, in scena il 24 e 25 novembre al Piccolo Teatro della Città. L’abbiamo intervistata per farci raccontare di questo suo progetto.

È emozionata all’idea di debuttare a Catania, la città vissuta e raccontata da Goliarda Sapienza?
Sì, certo, penso che anche a lei avrebbe fatto molto piacere. Conosco Catania e l’ho sempre molto amata, da quattro anni poi dirigo un festival per Planeta Vini, sull’Etna, (Festival Sciaranuova, ndr) che mi ha dato occasione di frequentarla di più.

Colpisce molto il titolo dello spettacolo. È un modo per richiamare alla mente lo straniamento del manicomio e dell’elettroshock?
No, lo spettacolo rappresenta un mio personale sguardo sul “Filo di mezzogiorno”, il romanzo con il quale Goliarda superò il periodo terrificante del manicomio. L’opera narra la vicenda illuminante e torbida fra la scrittrice e lo psicanalista, il dottor Majore interpretato da Giovanni Rizzuti, il quale attraverso la terapia, basata sul logos e sul racconto, riportò la donna alla realtà. Il termine music-hall viene usato perché la mia messa in scena è scandita da canzoni della tradizione anarco-socialista degli inizi del Novecento, che riportano alle radici di Goliarda e della sua famiglia. Le canzoni chiudono ciascuno dei cinque capitoli in cui ho diviso la pièce, per questo in scena con me ci sono due chitarristi-cantanti: Marcello Savona e Maria Piazza.

Lei e Francesca Joppolo avete attinto a diversi testi della Sapienza. Com’è strutturato lo spettacolo?
L’ossatura è rappresentata dal “Filo di mezzogiorno”, l’unica deroga a questo schema sono alcune pagine tratte da “L’arte della gioia”, dall’ “Elogio del bar” e da una poesia della raccolta “Ancestrale” dedicata alla madre.

Si riferisce forse a “Mia madre morta”?
Sì. La madre, che Goliarda ci racconta anche nei taccuini e in altre pagine molto belle, fu il mito della scrittrice. Una maestra elementare, socialista originaria che credeva nell’equità sociale e nell’alfabetizzazione, basti pensare che affidava i suoi figli a Gramsci per fare le battaglie davanti alle fabbriche. Trasmise all’autrice sia l’amore per la giustizia che per le donne. L’incipit dello spettacolo è come un sogno con un discorso registrato di Maria Giudice in occasione di un comizio per l’omicidio del sindacalista Orcel. A conclusione della scena troviamo Goliarda Sapienza stesa sul letto che ricorda o sogna la madre mentre nel pieno del delirio post-elettroshock recita questa poesia.

Oltre che autrice e attrice lei cura anche la regia. Le va di raccontarci il senso di questa scena così colorata?
Ho avuto la fortuna di visitare l’abitazione di Goliarda a Gaeta, una piccola casetta che le ricordava sicuramente Catania, per via dei vicoli e del mare. Nonostante le dimensioni, aveva un grande soggiorno con un letto matrimoniale su cui vi erano enormi cuscini viola, fucsia e rosa pallido e una trapunta coloratissima in tinta. Mi colpì molto il fatto che l’ambiente fosse femminile e allegro. Seppi poi da Angelo Pellegrino (marito e curatore delle opere della Sapienza, ndr) che quello era un letto multitasking: divano dove si potevano sedere fino a sei/sette amici, letto per gli ospiti, luogo di studio, sdraio. Tanto è vero che insieme allo scenografo abbiamo pensato di riprodurlo per lo spettacolo, l’unica differenza sta nel fatto che la testiera è un grande telo pendant su cui, di tanto in tanto, vengono riprodotte delle ombre come proiezioni mentali.

Foto di Francesco Vitale
Foto di Francesco Vitale

Nel 2005 “L’arte della gioia” fu libro dell’anno in Francia, qualche giorno fa a Lione ha debuttato un adattamento teatrale de “L’Università di Rebibbia”, altro testo fondante nella produzione letteraria della Sapienza. Come spiega il grande legame tra Goliarda Sapienza e la Francia?
Con la Rivoluzione francese temo, nel senso che i francesi sul finire del Settecento hanno decapitato l’aristocrazia e di conseguenza la religione cattolica. Questo gli ha dato una grande libertà di pensiero laico, non sessuofobico; di conseguenza, per loro, Goliarda Sapienza è un genio, noi invece che siamo ancora oppressi dai tabù della classe sociale legata alla religione abbiamo molte remore in merito. Modesta, la protagonista de “L’arte della gioia”, è una donna libera, ha rapporti sessuali indifferentemente con uomini e donne, non è moralista e persegue la gioia. Inoltre all’interno del romanzo commette una serie di omicidi simbolici come quello della madre e della sorella ammalata, tutti aspetti che hanno scandalizzato non poco. Purtroppo dal punto di vista culturale l’Italia è ancora molto indietro.

A proposito de “L’arte della gioia” lei l’ha proposto a teatro nel 2000. Crede che oggi ci sia ancora bisogno di figure così forti?
Certamente, abbiamo bisogno di modelli del genere, anche se il problema resta la cultura ufficiale. Nel 2000 il suo erede letterario, Angelo Pellegrino, m’invitò a leggere alcune pagine del romanzo all’Università di Palermo. Rimasi folgorata, tanto che decisi di portarlo in scena con una produzione autonoma. In Italia il teatro indipendente purtroppo è schiacciato sotto il peso dei grandi numeri oppure fatica moltissimo perché i primi soldi a essere tagliati sono spesso quelli per la cultura. Naturalmente non sono d’accordo con queste scelte, poiché la cultura costituisce la struttura di un paese e contribuisce a dargli risonanza.

Per concludere, ci dà tre motivi per non perdere lo spettacolo?
Sicuramente per il testo, io e Francesca Joppolo nell’adattamento abbiamo mantenuto per lo più la scrittura di Goliarda Sapienza; per le bellissime canzoni e perché dicono che sono molto brava (ride).

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