“I soldati piangono di notte”: Quasimodo, la guerra e un anno che non è mai nuovo

Non può nulla l’aria di festa. Neanche la tradizione, o un qual certo lontano senso di religiosità. Le armi non tacciono, nemmeno mentre il rito consumato di annunciare i buoni propositi invade la nostra quotidianità. Per tutto un mondo al di là delle luci, di nuovo ci sarà poco da celebrare. Come ricorda la lirica dello scrittore isolano. Come ricordano le lettere dei tanti siciliani al fronte, scritte più di un secolo fa ma ancora, incredibilmente attuali. Per una volta, forse, non sarebbe meglio augurarsi un anno vecchio? Vecchio, come quelli distanti, troppo distanti nel tempo, che sanno di pace

Nell’insieme di riti laici che immancabilmente accompagna l’approssimarsi di ogni nuovo anno, ce n’è uno che, di volta in volta, risulta febbrile, matematico a dir poco: quello del tracciare un bilancio. Il suo compimento, addirittura, richiede uno sforzo della memoria quasi titanico. Ogni accadimento, ogni minuscolo corollario che ne è derivato, ogni soffio di parola giunto ad accarezzare l’udito viene ripercorso con cura certosina, con l’impeto di incasellare antichi e rinnovati propositi, passati dispiaceri e future rivincite, quasi a volere, per magia, sigillare i primi in ciò che è definitivamente stato e prolungare l’ambizione dei secondi in ciò che auspicabilmente sarà. Ma, in questa sorta di calcolo del sentimento – di certo non poco appesantito dalla ruggine della vuota consuetudine –, manca sempre un fattore. Una costante, senza la quale non è possibile validare il risultato dell’operazione. È la costante della realtà, che rifiuta di assoggettarsi alle pagine di un calendario. L’esistenza di tutto un mondo, di tutta un’umanità che non giubilerà. Che non avrà avventi da segnare in rosso, se non quello del rinnovo della propria solitudine. Che magari, ondeggiando sinistramente tra un colpo d’artiglieria e una mina interrata, si preoccuperà pure di incavare su della carta improvvisata qualche tremolante riga d’augurio ai cari distanti. Senza sapere, tuttavia, se arriverà in tempo. O se mai arriverà a destinazione. In quelle città, magari, che preferiranno affossare le ombre nelle grandi, coreografiche mascherate sansilvestrine. Che copriranno gli schioppi degli spari con quello dei fuochi, o delle campane. E tornano alla mente, rapide come una freccia, i versi sconsolati, ma carichi di sincera compassione, che Salvatore Quasimodo incise nella sua raccolta La terra impareggiabile (1958), allorquando, riflettendo come di consueto sui temi del ricordo e dell’isolamento, gli balenarono alla mente i tristi fotogrammi del fronte. Le feste trasmutate, schiacciate dall’onnipresenza del pericolo.

Sembra quasi di vederlo lì, il poeta, su un’altura, a sporgersi nell’abisso fangoso di una trincea. Il tintinnio dei fiocchi di neve, delle vetrine addobbate, si infrange nel fumo di nebbia. Il lampeggiare non delle luminarie, ma delle folgori di zolfo e carbone. I giorni che dovrebbero inneggiare alla tregua e che, invece, dimenticano sé stessi. Lasciando solo l’eco de I soldati piangono di notte:

«Né la Croce né l’infanzia bastano
il martello del Golgota, l’angelica
memoria a schiantare la guerra.
I soldati piangono di notte
prima di morire, sono forti, cadono
ai piedi di parole imparate
sotto le armi della vita.
Numeri amanti, soldati,
anonimi scrosci di lacrime
».

“I soldati piangono di notte”

Niente li scuote da quella fatale monotonia. Neanche il rombo della morte, divenuto ormai familiare. Non la religione, trafitta dall’odio. Non la secolarità degli appuntamenti festivi. Solo il ricordo di ciò, di chi, è rimasto indietro. E tornano alla mente quelle lettere sgraziate, ma intrise di verità. Quelle sopravvissute alla Grande Guerra, alla censura degli ispettori che volevano ammantare il conflitto di chissà quale mitologica meraviglia. Quelle spedite dai tanti siciliani chiamati sul campo di battaglia, su montagne, pendii, crepacci sconosciuti. Sospesi tra il desiderio che tutto finisse e l’amarezza di sapersi condannati all’obbedienza. Come l’ufficiale che scrive alla propria fidanzata. Vorrebbe rassicurarla, infonderle il coraggio che a lui, ogni tanto, viene a mancare, dirle che ha capito come orientarsi in quel «mare ignoto in cui si naviga ad occhi chiusi». Ma tutto ciò che sgorga da quel flebile inchiostro è una speranza frustrata: «Ma almeno l’umanità ne uscisse rigenerata! Io credo però che il mondo sarà più infame e più corrotto di prima». Come Giuseppe Cavalieri, di cui non si conosce la città d’origine, che scrive alla zia: «Ormai siamo stanchi, non ne possiamo più, ci mandano al macello della carne umana a farci massacrare senza pietà, senza vedere se si può avanzare o pure no. Certe volte andiamo fin sotto le sue trincee senza concludere niente, con un fuoco infernale, e ci fanno ripiegare subito, lasciando sparsi di qua e di là tanti compagni, lasciando tanti padri di famiglia. Eh! Cara zia, è difficile scamparmela, dev’essere altro che miracolo rimanere salvo, se non è oggi è domani che resto sparso in mezzo ai miei compagni, abbandonato per sempre». O ancora, come Vincenzo Giuffrida, partito da Gravina di Catania, che rivolgendosi al cognato con una cartolina sentenzia: «Il mondo intero in questa guerra è soldato».

Forse, per una volta, più che sperare in un anno nuovo, che di nuovo ha soltanto la sua medesima iterazione, faremmo bene ad augurarci un anno vecchio. Come quelli che sembrano così lontani da non essere mai esistiti. Come quelli colorati dai riflessi della pace. Di quelli silenziosi, in cui persino le armi trovano la forza di tacere. A più di un secolo da quelle missive gridate, a mezzo secolo dallo struggimento di Quasimodo, se lo augurano i soldati, che continuano a piangere nelle notti più buie della storia. Ma se lo augura anche chi, soldato, non credeva di diventarlo. Se lo augurerebbe chi è rimasto a guardare, in attesa di notizie confortanti. Se lo augurerebbero i civili, mentre scavano tra le macerie della loro vita. Se lo augurerebbero i bambini. Di chiudere gli occhi e rinascere in un buon anno.

(In copertina: The australian war memorial | Unsplash)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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