Il Castello Nelson: un gioiello che svela l’insospettabile legame tra Sicilia e sorelle Brontë

Tra i boschi dei Nebrodi, precisamente a Bronte, esiste un monumentale scrigno ricco di tesori. È consuetudine chiamarlo castello, nonostante sia in realtà una ex abbazia benedettina. Ed è intitolato ad uno dei più popolari protagonisti della storia moderna. È il cosiddetto Castello Nelson, la tenuta oggi aperta al pubblico che, nel 1799, Re Ferdinando IV di Borbone donò al celeberrimo ammiraglio inglese – all’interno del complesso di Santa Maria di Maniace, all’epoca nel territorio della Ducea di Bronte – come ricompensa per l’esecuzione di Francesco Caracciolo, che con l’istituzione della Repubblica Partenopea minacciava il potere borbonico sul Regno delle Due Sicilie. Varcato il suo monumentale ingresso, sembra quasi di trovarsi all’interno di un set cinematografico, in cui ogni angolo svela un frammento ancora vivido di ciò che fu: la piccola chiesa tardo-normanna annessa al complesso, il portico a sesto acuto, i bassorilievi allegorici dei capitelli, le pale d’altare medievali. E ancora i giardini retrostanti dall’aria abbandonata, i sontuosi appartamenti nobiliari dall’arredo originario, i pavimenti di maiolica risalenti al XVIII secolo e restaurati. Per non parlare dei dipinti di Richardson, Spencer, Parton e numerosi altri pittori inglesi che rammentano, lungo il corridoio al piano superiore, le gesta gloriose compiute dall’ammiraglio durante la Battaglia del Nilo.

Foto di Rachele Liuzzo

LE TRACCE DI UN LIBRO. Un vero trionfo del sincretismo, in cui lo stile anglosassone incontra la cristianità e la sicilianità. Ma è forse nei dettagli che le curiosità ancora nascoste del Castello fanno la loro fugace comparsa. Come quello di un taccuino fermo al primo gennaio del 1979, che reca ancora il nome dell’ultimo proprietario (prima che nel 1981 il possesso del bene passasse al comune di Bronte). Sì, ancora un Nelson: per ben due secoli la famiglia dell’ammiraglio tenne per sé quel dono così caro. Ed è paradossale pensare che l’autentico beneficiario, il mitico Horatio, non ebbe mai modo di metterci piede, nonostante si fosse ripromesso di visitarla all’indomani della Battaglia di Trafalgar. La morte sopraggiunse prima che portasse a termine tale proposito. Ma è ancora alla sua figura che si lega un’altra, e decisamente più sorprendente, curiosità legata al Castello. Ha la forma di un antico volume, dentro una sala di lettura colma di testi della letteratura inglese. È uno dei classici più famosi e letti di sempre: Jane Eyre di Charlotte Brontë, sorella di Emily ed Anne. È davvero solo una coincidenza la somiglianza quasi immediata tra il nome della città del pistacchio e quel cognome letterario? Per avere la risposta, bisogna fare un salto indietro nel tempo e nello spazio. Precisamente all’Irlanda del Nord di fine ‘700.

Foto di Rachele Liuzzo

L’AMMIRAZIONE DI UN PASTORE. Nel comune di Banbridge, un piccolo paesino nei pressi di Belfast, si trovava la cosiddetta Bronte’s Homeland. Qui, nel 1777, nacque Patrick Prunty (o Brunty), pastore protestante di umili origini e padre delle tre raffinatissime scrittrici che avrebbero poi dato alle stampe capolavori come appunto Jane Eyre, Cime tempestose e Agnes Grey. Si dà il caso che sia stato proprio il reverendo a contribuire alla loro formazione, tramandando un forte interesse per la letteratura. Egli stesso si cimentò nella scrittura di poemetti di stampo religioso e politico tanto da riuscire a 25 anni a guadagnarsi un posto presso l’università di Cambridge, nonostante la preparazione da autodidatta. Ed è proprio in tale circostanza che il cognome Brontë fece la sua comparsa, saldandosi definitivamente al ricordo della Sicilia. Una scelta bizzarra, apparentemente, se consideriamo che le precarie condizioni economiche della famiglia con tutta probailità non permisero mai a Mr. Prunty, né tantomeno alle sue figlie, di approdare in Italia e nella Trinacria in particolar modo. E che la località di Bronte, all’epoca dei fatti, non poteva certo vantare la fama di cui gode oggigiorno. Un rebus si direbbe. La cui soluzione ha, come detto, ancora la firma dell’ammiraglio Nelson. Ben presto, infatti, l’eco delle sue gesta all’estero arrivò fino in Gran Bretagna dove gli valse l’ammirazione di molti connazionali. Uno di questi fu sicuramente il pastore Prunty, la cui stima provata nei confronti dell’ammiraglio lo indusse addirittura a modificare il proprio cognome in Brontë – con tanto di dieresi sulla sillaba finale per assicurarsi una pronuncia più italiana, e quindi più fedele, del nome.

Foto di Rachele Liuzzo

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare un simile legame tra due realtà culturalmente e geograficamente così distinte. Forse nemmeno le stesse sorelle Brontë che, per ironia della sorte, a lungo ricorsero a degli pseudonimi maschili (Currer, Ellis e Actob Bell) prima di rivelare la propria identità. Un legame che oggi è possibile riscoprire tra le sale del Castello Nelson, unico bene rimasto dell’antica Ducea di Bronte e custode di un ponte inaspettato tra Sicilia e Gran Bretagna, tra storia e grande letteratura.

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