Il sogno di un Abate, lo sguardo di un barone: Denon e la spedizione degli artisti alla scoperta della Sicilia
Nella Francia di metà ‘700, Richard de Saint-Non, archeologo, religioso e grande viaggiatore, si innamora dell’isola dopo averla visitata. Ne nasce un grande progetto: realizzare un diario illustrato dei suoi paesaggi e dei suoi monumenti greci. L’ardita missione viene affidata ad una squadra composta da alcuni dei migliori ingegni dell’epoca. A capo dell’impresa un uomo poliedrico, che Oltralpe tutti stanno iniziando ad apprezzare per la sua cultura. Il diario vedrà infine la luce: ma sarà ben più che un resoconto dei luoghi. Sarà un tuffo negli occhi e nei cuori di un popolo intero
Jean-Benjamin de La Borde amava profondamente il violino. Quando non teneva in mano l’archetto, si dilettava a fare da spettatore dei balletti nei teatri più chic di Parigi. A dire il vero, non esisteva una forma d’arte che il suo animo disdegnasse. Aveva persino sposato una poetessa: sicché lui, ricevitore delle finanze di Luigi XV, tra fastose galanterie e appuntamenti diplomatici era riuscito anche a trovare il tempo per verseggiare. Un’altra passione lo avvinceva: quella per la pittura e per il disegno dal vivo. La condivideva con un amico assai illustre: l’Abate di Saint-Non, instancabile viaggiatore, archeologo, munifico mecenate e raffinatissimo letterato. Tra le sue mille peregrinazioni, una, nel 1761, lo aveva particolarmente ammaliato: la visita in Sicilia. Di ritorno dall’isola, s’era messo in testa di commissionare una sorta di album illustrato di quella singolare commistione tra paesaggi e monumenti, tra natura e antiche vestigia di classicità. E benché lui stesso padroneggiasse la tecnica dell’incisione e si fosse sforzato di dare forma alle memorie e agli appunti che aveva collezionato, un proposito ardito, e certamente affascinante, gli si era presentato al cuore: inviare i migliori talenti francesi per immortalare quell’isola dai contorni mitici. Nel 1778 il piano aveva trovato attuazione: La Borde e Saint-Non avevano incaricato una vera e propria équipe di intellettuali e artisti. Scopo della spedizione: redigere un diario che catturasse gli scorci più suggestivi e che fungesse da manuale di studio per le architetture greco-romane. Gli incaricati erano stati quattro: gli architetti Jean Louis Desprez e Jean-Augustin Renard, il paesaggista Claude Louis Châtelet. E soprattutto, a capo del manipolo, il barone Vivant Denon, poliedrico uomo di cultura che spaziava con agio dalla storia dell’arte all’archeologia e alla scrittura, grande amico di Jacques-Louis David e figura di spicco della nascente disciplina della museologia. Il loro sbarco sull’isola, avvenuto a Messina, è datato 2 giugno 1778. Non potevano immaginare che quell’impresa, nata per motivi che si potrebbero in qualche misura definire accademici, si sarebbe rivelata qualcosa di più. Un tuffo in un mondo, in un tempo, in un sentimento che mai avevano conosciuto. In un confine umano ben più ampio di quello geografico.

Qualcosa di malinconico, di languido, ma anche inspiegabilmente sanguigno si era fatto innanzi alla loro vista. Da Messina, la meta era stata immediatamente identificata come una sola: l’Etna. Taormina e Catania avevano fatto da tramiti, fino all’approdo a Nicolosi. Proprio qui Denon, prima di intraprendere con i suoi sodali la scalata vulcanica, si era lasciato andare a delle riflessioni soffuse, che esulavano dal semplice rendiconto paesaggistico: «Uscii dunque da Catania il 22 giugno, alle otto del mattino. Un leggero vento di nord-est rendeva trasparente il pennacchio di fumo che si innalzava dal cratere della montagna, si stagliava sul cielo e, dondolando come un fanale di nave, si dissolveva lentamente nello spazio, a più di venti leghe sul mare. Camminavamo colmi di coraggio e di speranza. Tuttavia, appena avemmo percorso sei miglia, una piccola nuvola si formò perpendicolarmente al cratere. Questo punto immobile cominciò ad inquietarmi. Arrivammo a Nicolosi, grande e popoloso villaggio, ma che mi apparve misero per l’aspetto triste che presentano sempre le costruzioni in lava». Risuonavano al suo ingegno tracce di un passato difficile. L’inquietudine generata dal gigantismo vulcanico – reitaratasi poi alle pendici dello Stromboli -, l’impotenza della sua condizione umana, ma anche l’attrazione incrollabile verso l’ignota grandezza. Era stata poi la volta di Adrano, di Enna, fino a Palermo per la scintillante festa di Santa Rosalia. E poi ancora, naturalmente, Segesta, Selinunte ed Agrigento con i loro templi, Erice a caccia della leggendaria tomba di Anchise e Siracusa. «Ci rimettemmo in cammino per raggiungere le rovine di Selinunte, chiamate i Pileri, a diciotto miglia da Mazara. Da questa città, fino al villaggio di Campo-Bello, la regione è deserta, come se fosse un paese ancora da scoprire: la terra non è coperta che da piccole palme nane, chiamate palme a ventaglio che sono usate generalmente per farne delle scope. A due miglia da Selinunte, si scorgono le rovine di questa città che rassomigliano a due vasti cantieri dove siano esposti tutti i materiali atti a costruirne una. Da vicino conserva la stessa illusione».
L’eziologia del mito si era fatta stupore. Ma anche filosofia, sociologia, storia, antropologia. L’osservazione – e la riproduzione – dei luoghi andava di pari passo con quella delle persone. Si era immerso, Denon, in quella realtà che forse avrebbe dovuto giudicare acriticamente e che, invece, gli stava serpeggiando sottopelle. Al punto da tradire quasi una nota di ammirazione per i suoi protagonisti: «I Siciliani, lontani dal loro re, che non conoscono se non attraverso un suo rappresentante, si abituano a considerarlo come un pensionato di cui frodano i diritti, si inorgogliscono di offrirgli dei doni gratuiti ed al quale, ogni tanto, tentano di disubbidire, nel solo intento di compiere un gesto di libertà. I Siciliani hanno avuto tanti sovrani, e si sono abituati a non amarne nessuno ed a preferire solo quello dalla cui debolezza possono trarre il maggior profitto: sono sempre pronti ad accogliere un nuovo sovrano che s’imponga con la forza, oppure quello che offra loro delle condizioni migliori; ma liberi di ricorrere, in caso di violenza e di tirannia, ai noti sistemi di rivolta, dei vespri siciliani o di altri consimili. Poiché il paese offre abbondanza di ogni specie di prodotti, essi sono più difficili da asservire di qualsiasi altro popolo, perché non è possibile costringerli tramite delle privazioni. Si può spogliarli, ma mai rovinarli e infatti un cattivo governo può impoverirli, ma non farli morire di fame».

Adrano, Sciacca, Alcamo, Calatafimi, Cassibile, Ispica: neppure i piccoli centri erano sfuggiti alla sua curiosità. Proprio a proposito di Ispica, Denon sembra quasi abbandonarsi ad un periodare dantesco: «Nel mezzo di questa vasta distesa che somiglia ad una pianura uniforme, venendo tutto ad un tratto a mancare il terreno, si scopre una vallata profonda, tortuosa, così ricca, tanto abbondante di prodotti quanto il resto è arido. Discendemmo un sentiero rischioso, lungo la roccia a picco che fiancheggia questa vallata, il fondo della quale è cento piedi più basso». Un ultimo inciampo di meraviglia, prima di congedarsi. E prima di tornare a Catania, che fugacemente aveva toccato passando per Misterbianco. Passando per Lentini, sulla quale non può esimersi dal considerare – con una modernità che lascia quasi interdetti – quanto segue: «Antica, grande, ricca e celebre città, fondata dai Calcidesi al tempo stesso di Catania. Questa città, rivale di Siracusa, è ormai ridotta a quattromila cittadini che abitano su di una piccolissima parte delle rovine dell’antica città. L’aria malsana che si respira tutt’intorno impedisce alla popolazione di accrescersi, malgrado che il territorio abbondi di ogni genere di prodotti».
Alle porte del dicembre 1778, i quattro, inediti esploratori si erano imbarcati per far ritorno a casa. Per Denon, la Sicilia sarebbe stato solo l’inizio di una folgorante carriera. Il resoconto della sua traversata isolana, corredato dagli schizzi e dalle vedute dei suoi compagni, confluì in una grande opera in volumi, pubblicata tra il 1781 e il 1786, con il titolo di Viaggio pittoresco a Napoli e in Sicilia. La firma era quella dell’Abate di Saint-Non, che quel diario lo aveva sognato, desiderato, agognato. Il nome di Denon, tuttavia, sarebbe di lì a poco tornato alla ribalta. Nel 1802, fu tra gli accompagnatori di Napoleone nella Campagna d’Egitto, della quale stese un dettagliato racconto. L’anno dopo, venne nominato direttore di quello che sarebbe diventato il Museo del Louvre, per il quale, per circa dieci anni, ebbe il compito di raccogliere opere d’arte da ogni parte d’Europa. Morì a Parigi nel 1825, dopo essersi ritirato a vita privata, circondato dalle sue incisioni. Chissà quante volte si sarà soffermato su quelle siciliane. Dove non aveva scelto di andare. Ma dove aveva scelto di rimanere con la sua arte e con la sua memoria.
(In copertina: Abate di Saint-Non, Veduta del pittoresco sito e dei resti dell’antico teatro di Siracusa, 1786)
